L’oro dei faraoni

Copertina

Copertina – Râ e Imentet (a sn) dea delle necropoli occidentali dell’Egitto. Dipinti nella tomba di Nefertari, valle delle regine (da storicang.it)

L’oro, Râ e il Faraone

Presso gli Egiziani l’oro accomunò il significato religioso a quello politico. Identificava il potente ed amato Râ in terra (Copertina, Figura 1 e Figura 24), il creatore dell’universo e dell’umanità. Il Sole da cui tutto proviene. E questa filiazione dava legittimità al faraone ed a tutta la sua progenie.
Il faraone era l’unico possessore dell’oro e delle miniere aurifere, come del resto i Re delle contemporanee civiltà dell’Oriente Antico. Solo il faraone lo distribuiva agli artigiani ed agli artisti. Solo il faraone poteva commerciarlo e goderne i proventi o barattarlo con oggetti di lusso e/o armi a titolo di scambio di doni fra monarchi.
L’oro circondava e adornava sempre il faraone (Figura 2): ornati e ninnoli sulle vesti da vivo ed oggetti nei corredi (quando non addirittura il sarcofago) da morto.
Il faraone Thutmose III (1481 o 1479 – 1425 BC; Figura 3 e Figura 4) avrebbe ricevuto dai sudditi, durante il suo regno, circa 2000 Kg d’oro, dei quali la metà (in unità di peso egiziana equivalenti a 11410 deben) sarebbero stati prodotti, dalle miniere reali, in soli 4 anni (MICHELETTI, 1973).
Ma non tutto l’oro egiziano veniva dalle miniere. In parte derivava da bottini di guerra. Ad esempio, secondo alcune iscrizioni, nella battaglia di Megiddo (1457 BC) i Cananiti ed i loro coalizzati avrebbero schierato molti carri (un migliaio) adorni d’oro, argento, bronzo, pietre preziose, etc. che passarono nelle mani dei vincitori egiziani a titolo di bottino di guerra e tributo (insieme ad armature, armi, bestiame, etc.). Dopo Megiddo l’impero egiziano raggiunse la sua massima estensione.
Iscrizioni e raffigurazioni delle tombe rivelano che lo stesso faraone guidava le spedizioni per rifornire le casse statali di metallo prezioso. La meta di tali viaggi era una regione del Mar Rosso, il mitico paese di Punt. Ma Punt rimane ancora ammantato di leggenda, come la sua possibile, univoca localizzazione. 
Iscrizioni e geroglifici ricordano un’importante missione commerciale voluta dalla regina Hatshepsut (Figura 9) nel paese di Punt ed il ritorno a Tebe con mercanzie e alcuni alberi di incenso (Figura 5 e Figura 8). Una seconda missione navale, forse guidata dal faraone Seti I, riportò dal paese di Punt a Tebe oro, incenso, mirra, zanne di elefante, lapislazzuli, ebano, pavoni e scimmie (Figura 6).

Il turchese dei faraoni

Fin dalla I dinastia (3000 a.C.) esisteva un Dipartimento dei Lavori del Re che soprintendeva allo sfruttamento delle cave di pietra, delle miniere di turchese del Sinai e di quelle d’oro.
Diverse miniere di turchese coltivate dagli Egiziani si trovano all’intorno del tempio di Serabit El-Khadem, posto a 850 m di quota sull’altipiano limitato dallo Wadi Sawik, dallo Wadi Bata, dallo Wadi Sarbout, dal Gebel Ghorabi e dal Gebel Serabit el-Khadem.
Iscrizioni ancora leggibili, tracciate sugli imbocchi indicano che l’attività sarebbe iniziata durante il Medio Regno e proseguita sotto Amenemete II e III e sotto Tuthmosi IV.
Un altro gruppo di miniere, coltivate durante la XII Dinastia, si trova a nord del tempio, presso lo Wadi Dhaba. Particolari interessanti, emersi dalla lettura delle numerose stele presenti nel sito, è che nel tempio sia gli Egiziani che i locali Semiti praticavano li medesimo culto della Signora del Turchese (ribattezzata dagli Egiziani Hathor). Hathor (Figura 7) era la dea dai mille volti, la dea del cielo, della danza, dell’amore, della gioia. Ma anche la patrona di tutto quello che dà gioia e felicità, di tutto ciò che rende la vita degna di essere vissuta. Forse per questa sua ecletticità fu affiancata al turchese.
Al lavoro minerario non erano destinati schiavi o prigionieri, ma maestranze locali costituite da uomini liberi il cui capo era chiamato fratello del principe di Retennu.
Dello stesso periodo …si conoscono splendidi braccialetti in oro lavorato a lamina stampata, turchese e lapislazzulo (originario dell’Afganistan), provenienti dalla tomba (o dal cenotafio) del faraone Ger ad Abido... (BISI, 1990).

L’oro dei faraoni

Alcune delle miniere d’oro gestite dagli egiziani si trovavano a Coptos (Alto Egitto), a Edfu, a Wawat (Sudan), ad Um-Nabari (a soli 60 Km ad oriente del Nilo) ed a Kush in Nubia.
Le miniere della Nubia furono aperte dal faraone Sesostri III e pare che nel IX secolo BC avessero una produzione oscillante fra 300 e 400 Kg d’oro l’anno.
La concentrazione maggiore di miniere d’oro del deserto nubiano si trova nella regione delle Montagne Cristalline e, precisamente, nella zona degli Wadi Gabgaba e Allaki.
La scoperta, tutta italiana, della mitica città di Berenice Pancrisia (cioè tutta d’oro) è stata il riscontro della ricchezza dei giacimenti Sudanesi. Berenice Pancrisia fu costruita nel III secolo BC per volontà di Tolomeo Filadelfo II Re d’Egitto. La città fu descritta da PLINIO e inutilmente cercata fin dai primi Ottocento.
Le risorse minerarie dell’Egitto, per la loro ricchezza, sono rimaste un punto fermo nella tradizione e nella cultura locale. Lo dimostra il fatto che ancora nel 1822 il vicerè Mohammed ALY, fondatore dell’Egitto moderno, chiamò nella Valle del Nilo il bassanese Giambattista BROCCHI (Figura 20), personaggio eclettico e di fertile intelligenza tipico figlio della cultura illuministica, al fine di valutare la possibilità di riprendere lo sfruttamento delle locali risorse minerarie.
Altri giacimenti sfruttati dagli egiziani furono riattivati dagli inglesi all’inizio del Novecento: è il caso delle miniere  di Um-Nabari, la cui breve distanza dal Nilo, oltre alla ricchezza, le rendeva di nuova attualità. I resti del complesso minerario moderno convivono con quelli dell’insediamento antico, notevolmente conservato, e composto da numerose casette a pianta circolare (le abitazioni degli antichi minatori) e da centinaia di macine egizie in breccia verde.

C’è poi l’oro proveniente dal lavaggio delle sabbie dei fiumi fra il Niger ed il Senegal. Questo era ancora fondamentale ed attuale nel secolo scorso, come oggetto di scambio per le merci provenienti dall’occidente. In particolare per le carovane provenienti dal Sahara e dal Sudan. I carovanieri acquistavano l’oro seguendo strani rituali secondo i quali il compratore ed il venditore non dovevano incontrarsi fisicamente. Lo scambio avveniva prevalentemente con cuoio e tessuti europei.

L’oro di Berenice Pancrisia

La via carovaniera egizia di penetrazione e comunicazione fra il Nilo e la regione dell’oro di Wawat è individuata da decine di grandi segnali in pietra di forma piramidale, gli alamat (Figura 10). In realtà questi segnavia furono realizzati dagli arabi IX secolo dopo che ebbero riscoperto le miniere d’oro abbandonate dai faraoni. Gli alamat erano stati posizionati in maniera fossero fra loro visibili e distanti alcuni chilometri.
La via dell’oro che conduceva al Wadi Gabgaba era costellata da centinaia di antichi insediamenti. Erano piccoli nuclei di lavorazione, ma anche estesi villaggi. Furono posizionati sia in ragione della disponibilità d’acqua (sempre più rara) che di minerale aurifero. Negli edifici sono stati rinvenuti frequentissimi strumenti: …picchi, pestelli, grossi percussori di granito, ma soprattutto centinaia di macine a sfregamento, le più antiche, profondamente incise dall’usura. 
Dappertutto si possono vedere le tracce di imponenti lavori idraulici: dighe realizzate con pietre a secco e lunghe centinaia di metri, bacini di raccolta, rudimentali canalizzazioni che si inerpicano sui fianchi delle montagne al fine di raccogliere la rara e desiderata acqua piovana. (…) Le miniere, poste nelle immediate vicinanze dei centri di sfruttamento, sono del tipo a cielo aperto, talvolta ottenute con imponenti scavi di sterro o a trincea, lunghe anche un centinaio di metri e profonde fino a dieci o, infine, a galleria o a pozzo, scavati direttamente nel durissimo quarzo. 
Per quanto sia ancora difficile stabilire una datazione precisa per le rovine che letteralmente riempiono vaste zone del deserto orientale nubiano, è certo che lo sfruttamento minerario dovette durare millenni, almeno fino a epoca islamica: la presenza di recinti a forma di moschea, di vasti cimiteri musulmani, oltre che delle testimonianze di antichi autori arabi, non lascia dubbi
…  (CASTIGLIONI A., CASTIGLIONI A. e NEGRO G, 1991).

Più avanti, nella lussureggiare vegetazione della regione di Akita, sorgono i resti della città di Berenice Pancrisia. Anche qui si trovano le...tracce di tutte le tipologie dell’antico sfruttamento aurifero: la raccolta del quarzo in depositi alluvionali, gli scavi in trincea, a galleria e a pozzo. Questi ultimi, che seguono la vena aurifera in profondità, sono forse i più impressionanti (…). Sia nei pozzi che nelle gallerie vediamo i segni degli antichi fuochi usati per ammorbidire e frantumare il quarzo... (CASTIGLIONI A., CASTIGLIONI A. e NEGRO G, 1991).

Immagine citata nel testo

Figura 6 – Il viaggio navale nel mitico paese di Punt ed il carico di oro, incenso, mirra, zanne di elefante, lapislazzuli, ebano, pavoni e scimmie (da Web).

L’estrazione dell’oro nelle miniere egiziane

Gli Egiziani vanno soprattutto ricordati per il primo, noto, piano minerario della storia (Museo Egizio di Torino, Nuovo Impero, 1680- 1020 a. C.). Secondo alcuni, il papiro rappresenterebbe la miniera di Dakken in Libia, la cui coltivazione fu iniziata dal faraone Sethi I durante il XIV secolo BC. Altri suppongono possa essere l’impianto minerario del Wadi Wawat, del Wadi  Hammat o Wadi Hammamat, posti fra il Nilo ed il Mar Rosso (Figura 25).
In Egitto, l’attività mineraria analogamente alle altre a carattere primario, era completamente programmata e regolamentata. Interi villaggi sorgevano ai limiti dei campi estrattivi (Figura 19) che erano diretti dai Capi dell’oro. Questi rispondevano personalmente ad un Reggente nominato direttamente dal faraone. Il suo compito principale consisteva nel consegnare tutto l’oro prodotto nelle mani del Re.
In miniera lavoravano operai specializzati che godevano di tutta una serie di privilegi. Percepivano un salario onorevole, avevano cibo adeguato ed assistenza spirituale in un tempio costruito allo scopo.
All’estrazione erano addetti gli uomini più giovani e vigorosi, mentre gli anziani operavano all’esterno. Ad essi era riservato il compito della frantumazione primaria. Alle donne era demandata la macinazione finale ed il conseguente lavaggio della polvere per il recupero del metallo prezioso (come era eseguito per le sabbie aurifere).
La testimonianza del ciclo estrattivo operato nelle miniere d’oro egiziane si deve a DIODORO SICULO (prima metà del I secolo a.C.). Egli …descrive il modo di scavare  un filone di quarzo aurifero, che veniva abbattuto, dopo lo sgretolamento ottenuto con l’impiego di «forte fuoco», da minatori che portavano una lucerna sulla fronte, la frantumazione in appositi mortai, la macinazione con mulini a palmenti o con molazze, il lavaggio su apposite tavole del quarzo aurifero macinato ed infine il trattamento delle sabbie pesanti, separate con il lavaggio sulle tavole, in vasi di terracotta contenenti piombo, sottoposti al fuoco dei forni per cinque giorni consecutivi. (…) Potrebbe anche darsi che l’impiego del piombo fuso in luogo del mercurio fosse una necessità per la presenza nelle sabbie pesanti di notevole quantità di solfuri, arseniuri ed antimoniuri d’argento che solo con il piombo fuso potevano essere ricuperati… (MICHELETTI, 1976).

L’oreficeria dei faraoni

L’arte orafa egiziana si è mantenuta originale per lungo tempo, a cominciare dalla XII Dinastia (2000-1788 BC). Solo in un secondo momento l’influenza dei popoli mediterranei, Cretesi in particolare, ha condizionato stilisticamente la produzione degli orafi egiziani. Con la XIX Dinastia (1345-1200 BC), però, il livello artistico si è allineato su quello contemporaneo straniero.
All’origine dell’arte orafa egiziana ci sarebbe un motivo  puramente superstizioso. L’oro era il metallo ideale a questo scopo, sia per l’intrinseca inalterabilità del metallo, che per l’immediata lettura del motivo rappresentato. Erano oggetti capaci di neutralizzare le forze del male e assumevano significato protettivo.
La tecnica di impiego e lavorazione più antica, e semplice, consisteva unicamente nel battere i grani d’oro fino al punto di ottenere delle lamine che erano poi intrecciate nelle parrucche o appese come pendenti.
Dalla II Dinastia le lamelle furono impiegate anche per intarsi nelle anse dei vasi ed in associazione con pietre preziose. Solo più tardi, dall’Età del Bronzo (2000-700 BC) entrò nell’uso comune la fusione praticata in crogioli d’argilla.
La maestria nel lavorare a sbalzo, a stampo e a fusione l’oro e l’argento, combinandoli con pietre dure dai colori smaglianti, raggiunge vertici insuperati nei gruppi di oreficerie del Medio Regno (circa 2040-1785 a.C.) provenienti da tre località sulla riva del Nilo a sud di Saqqara, ove sorgevano le tombe reali della XII dinastia (2000-1850 a.C.): sono, in successione, Dahshur, el-Lisht e Lahun… (BISI, 1990). Qui si affermarono tipologie di una raffinata inventiva che furono destinate a divenire canoniche. Sono i pettorali, originariamente lavorati in lamina d’oro a giorno con figure intervallate da spazzi vuoti e decorazioni ad intarsio e/o cloisonné (Figura 2 e Figura16). In seguito  degenerarono nella barocchizzazione e pesantezza delle successive XVIII e XIX dinastie. Però, contemporaneamente, si manifestò una sempre maggior sofisticazione e magnificenza della lavorazione. L’esempio più rappresentativo è il fastoso tesoro del faraone giovinetto Tutankhamon (1341-1332 BC) composto da decine e decine di pezzi, Erano oggetti culturali, decorazioni personali, e mobili rivestiti di lamine d’oro. Fra questi spiccano gli anelli digitali aurei con castoni incisi. Furono la sublimazione del virtuosismo tecnico raggiunto dagli orafi di corte. Il più famoso rappresenta ...una straordinaria scena a tutto tondo (cioè con minuscole figurine a fusione piena), raffigurante l’adorazione del dio Râ da parte del faraone inginocchiato, fiancheggiato da due babbuini… (BISI, 1990).

L’elettro, lega naturale di oro e argento

Fra l’VIII ed il VII secolo BC furono anche coniate le prime monete impiegando esclusivamente elettro dell’Asia Minore (Figura 11). L’elettro è una lega naturale di oro ed argento. 
OMERO ricorda che la reggia di Menelao riluceva d’oro, elettro, argento ed avorio. Anche PLINIO descriveva questo metallo ricordando che spesso l’oro conteneva naturalmente quantità variabili d’argento. L’elettro migliore sarebbe stato quello della miniera francese che si trovava in una località chiamata Albucrarense. Qui il minerale avrebbe avuto un rapporto Au/Ag di 100 a 36. 
Ancora nel Settecento persisteva il problema di separare l’oro dall’argento per via secca. Nel 1750 il di ROBILANT riuscì a strappare il segreto della tecnica a Meclenburgo. Il …metodo consisteva nel fondere la lega in crogiuoli conici con angolo al vertice molto piccolo, rivolto verso il basso, e nell’aggiungere zolfo al metallo fuso. Lo zolfo generava solfuro d’argento e non agiva sull’oro. Questo, pesantissimo, scendeva nel vertice del cono mentre il solfuro d’argento restava sopra come scoria. Nella Pirotechnia, stampata verso il 1540, era descritto un metodo anche più perfetto dal punto di vista chimico che prevedeva un’aggiunta, alla lega dorata fusa, di zolfo e d’ammonio. Il Biringoccio però non parlava della forma dei crogioli… (MICHELETTI, 1989).

Il lavaggio delle sabbie

Pare che già dal 4000 BC gli Egiziani conoscessero la tecnica del lavaggio delle sabbie ed estraessero l’oro dall’Alto Nilo.
Più tardi, la …ricchissima serie di scene di vita quotidiana dipinte sulle pareti interne delle tombe (Figura 21), documenta le varie fasi di lavorazione dei gioielli (Figura 13, Figura 14 e Figura15) con una cura del dettaglio – dalla pesatura dell’oro in lingotti (Figura 22) al raffinamento nei crogioli (Figura 23) azionati da mantici alla fabbricazione di pettorali (Figura 16, Figura 17 e Figura 18), pendenti  e grani di collane – che trova molto raramente riscontro altrove. Sono infatti solo i rilievi assiri del IX-VII secolo a.C. a fornire in Mesopotamia un equivalente, molto più circoscritto nel tempo, della documentazione egiziana, anche se poi vari gruppi di testi sumerici (della III dinastia di Ur, 2112-2004 a.C.) e assiro-babilonesi si affiancano ed integrano i gioielli restituiti dalla Valle dei Due Fiumi… (BISI, 1990).
La testimonianza scritta più importante ed interessante della lavorazione dei metalli in Egitto, che per altro conferma le informazioni desumibili dalle iscrizioni sulle tombe, è la stele di Irtisen (XI Dinastia, circa 2000 BC), oggi conservata al Louvre (Figura 12). La stele, proveniente dalla necropoli di Abydo, recita …Io conosco le proporzioni dei colori e dei loro elementi, e non permetto che il fuoco li possa bruciare e l’acqua li possa scolorire. Ciò non fu rivelato a nessuno, tranne che a me solo e al figlio maggiore del mio corpo, perchè Dio (= il faraone) aveva ordinato che egli venisse istruito in proposito. Io ho visto ciò che è uscito dalle sue mani quando faceva lavori con ogni genere di metalli pregiati, a cominciare dall’argento e dall’oro per finire all’avorio e l’ebano... (PERNIGOTTI, 1991).

Il prestito di stato

Un’altra attività molto diffusa fra i faraoni era quella del prestito di Stato per quantità anche ingenti di oro. Erano operazioni che comportavano ampi margini di utile, lecito o meno che fosse. I faraoni non si facevano scrupolo di brogliare i committenti, generalmente altri monarchi amici. Gli inviavano elettro o comunque oro impuro per presenza di rame o argento. La cosa ne sollevava le giuste proteste tanto che sia i sovrani Babilonesi che quelli Mitanni, prima di accettare le spedizioni, usavano aprire le casse giunte dall’Egitto alla presenza degli ambasciatori accreditati. E questi dovevano assistere anche all’analisi del metallo.

Edfu, Edfo, Governatorato di Assuan, Egitto

Abu Redeis, Governatorato del Sinai del Sud, Egitto

Megiddo, distretto Nord, Israele

Note di aggiornamento

2023.01.20

Testo dell’interessante post da FB_Egitto: la storia e la civiltà.

Un amuleto in oro massiccio di Osiride nella sua veste tipica, che indossa la corona atef e una barba divina, e tiene il bastone e il flagello tra le mani appoggiate al petto. Un anello è attaccato alla parte posteriore, permettendo a questa figura di essere indossata come amuleto.
Il materiale oro è prezioso e facilmente riciclabile, il che spiega perché relativamente poche statue sopravvivono in questo materiale. È un materiale appropriato per le statue delle divinità perché questo metallo, che brilla come il sole, era considerato il materiale di cui erano fatti i corpi degli dèi.
“Il dio indossa la corona atef con un ureo [e due corna che lo collegano al dio del sole, Ra, che è spesso raffigurato come un uomo dalla testa di ariete], sfoggia una barba posticcia e porta sulle spalle il bastone e il flagello. Tutti questi sono equipaggiamenti condivisi dalle ideologie reali e osiriane. Osiride era l’ipostasi della regalità e il “re-in-morte”, un ruolo che lo trasformò nel grande sovrano dei morti e nella fonte ultima del potere e del giudizio mortuario. Unita a tutte queste funzioni era la sua ineffabile associazione con la fertilità in tutte le sue forme, e specialmente con il Nilo.
Nel Periodo Tardo, il culto di Iside e Osiride sviluppò un aspetto di salvezza personale, che prometteva protezione dalla dannazione ai devoti. Nel periodo greco-romano, questo culto si trasformò in una delle religioni misteriche internazionali”.
Da “Statue of Standing Osiris,” Betsy M. Bryan in , Tutankhamon : The Golden King and the Great Pharaohs, di Zahi Hawass, The National Geographic Society, Washington, DC, USA, p. 167, 2008…

Immagine citata nel testo
Amuleto in oro massiccio di Osiride. Indossa la corona Atef, la barba divina, il bastone e il flagello

Amuleto in oro massiccio di Osiride
Terzo Periodo Intermedio
IX-VIII secolo a.C.
Ora al Kunsthistorisches Museum di Vienna…

Bibliografia

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Questo articolo fa parte di una serie di scritti presenti sul sito relativi all’oro, alla sua natura e presenza in Italia Settentrionale, con particolare riferimento ai giacimenti ed alle miniere della Valle Anzasca (VCO).

…In Macugnaga Valle Anzasca vi sono delle Bocche … d’oro e li loro Molini … lavorano quotidiana.te col Mercurio…

Altri articoli sono:

  1. Oro, storia di una leggenda
  2. Oro: baratto, simbolo, moneta, bene-rifugio, oggetto d’arte (prossima pubblicazione)
  3. L’oro dei faraoni
  4. Le arruge di Spagna dalla Naturalis Historiae (prossima pubblicazione)
  5. Nicolis DI ROBILANT: relazione sull’oro alluvionale del “Piemonte” (1786) (prossima pubblicazione)
  6. L’oro di Roma (prossima pubblicazione)
  7. Un percorso di archeologia industriale nell’oro della Valle Anzasca
  8. Medioevo e primi minatori in Valle Anzasca
  9. Amalgamazione e distillazione dell’oro in Valle Anzasca
  10. L’oro della Valle Anzasca nel Seicento
  11. Un dissesto ambientale in Valle Anzasca (VCO) nel 1766: paura o gelosia?

ed inoltre:

  1. Oro e mercurio nel Tigullio
  2. La Cava dell’Oro di Monte Parodi (SP): storia mineraria dell’argento ligure
  3. L’oro dei monaci della Val d’Aveto
 

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