Un percorso di archeologia industriale nell’oro della Valle Anzasca (VCO)

Copertina – Planimetria delle ricerche svolte dal 13 agosto al 14 settembre 1911 a Macugnaga – Val Quarazza. Riproduzione della carta conservata presso l’ex Distretto Minerario di Torino. Da una ripresa fotografica degli anni Ottanta del secolo scorso.

Prologo

In ogni epoca e ad ogni latitudine l’uomo ha subito il fascino sottile e contrastante dell’oro.
L’oro, il metallo nobile per eccellenza perché inalterabile in qualsiasi condizione. Facilmente lavorabile anche con tecniche relativamente semplici e, soprattutto, molto diffuso in natura. Purtroppo si trova solo in concentrazioni non sempre sfruttabili con profitto, almeno secondo l’attuale concetto di economicità industriale.
La prima ricerca del metallo ha interessato i giacimenti alluvionali (greti e sabbie fluviali e moreniche) dov’è possibile raccoglierlo in modo empirico (Figura 1). Il diritto alla pesca dell’oro era concesso come investitura o regalia fin dal Medioevo, ma era già nota nella letteratura classica e nella mitologia.
Si ricorda che nell’isola di Cyrani, presso le coste tunisine, le ragazze pescavano le pagliuzze d’oro facendo scorrere sulle sabbie di alcuni laghetti piume d’uccello cosparse di bitume. Un metodo precursore del più moderno processo di flottazione.
Successivo è l’inizio dello sfruttamento dei giacimenti primari, cioè quelli in posto (Figura 2 e Figura 3). Tuttavia gli studi più recenti stanno dimostrando come anche lo sfruttamento minerario dei giacimenti primari, e non solo di quelli auriferi, fosse praticato a cominciare dall’antichità almeno nel bacino del Mediterraneo ed in Europa.
Dobbiamo qui distinguere fra le coltivazioni di materiali litici (selce, radiolariti) e metallici (rame). Così, nel primo caso ricordiamo le miniere di selce di Defensola sul Gargano (7500-7000 anni fa) e la grande cava di diaspro di Valle Lagorara in Liguria Orientale (3000-2000 anni a.C.). Nel caso della coltivazione di minerali cupriferi le miniere più antiche sono quelle di Monte Loreto e di Libiola, sempre in Liguria Orientale (prima Età del Rame, 3500-3100 a.C.).

Ricerca e studio

Negli anni Ottanta-Novanta del secolo scorso, un gruppo di ricerca organizzato dall’Università di Roma La Sapienza ha condotto ricerche di archeologia mineraria nelle Alpi Centro-Occidentali, In particolare, dove sono presenti i giacimenti auriferi più cospicui del versante alpino meridionale.
Innanzitutto, la doverosa analisi della fonte storica, bibliografica, archivistica, documentaristica, iconografica e cartografica conservate presso Enti ed archivi pubblici e privati. Quindi è stata sviluppata la ricerca sul campo mirata a recuperare tutte le tracce ancora leggibili sul territorio e quelle trasmesse dalla cultura tradizionale e materiale.
Lo studio specifico è stato concentrato nella Val d’Ossola dove si conoscono le miniere che, a livello indiziario, apparivano le più antiche. Sono state, comunque, quelle sfruttate più a lungo nel tempo, ma soprattutto dov’era e dov’è ancora profondamente radicata e viva la tradizione estrattiva e metallurgica nella cultura locale. Ed ancora oggi questa tradizione è conservata e protetta dall’Associazione Culturale I Figli della Miniera.

Tradizione ed emergenze storiche-archeologiche

Le emergenze archeominerarie più importanti sono state identificate in Valle Anzasca. Qui, la cultura materiale faceva risalire l’origine dello sfruttamento del giacimento dei Cani,  ai Romani o ai Saraceni che avrebbero scavato una ventina di gallerie fra il crinale ed il letto dell’Anza (BARELLI, 1835). Il complesso minerario si localizza in versante orografico destro ed a una quota compresa fra i 1350 ed i 1850 metri sul livello del mare (DEL SOLDATO, 1988 e 1989; Figura 4).
La congettura ha assunto un significato più attendibile quando sono state correlate le annotazioni in letteratura storica con gli indizi archeologici. Le prime sono di tipo morfologico e cioè legate a conformazione, forma e dimensioni delle gallerie più antiche. Esse sono documentate in tratti dei rilievi originari e dalle descrizioni di Autori del XVIII e XIX secolo. Questi hanno potuto assistere alla ripresa dell’attività all’interno di cantieri dismessi da lungo tempo, riscontrando gallerie molto anguste e tortuose, a sviluppo strettamente concordante con la direzione e l’andamento del filone mineralizzato (Figura 5).
In tal senso sono fondamentali le testimonianze del FANTONETTI (1820), dottore in fisica e sindaco di Vanzone con San Carlo, sul ritrovamento di tracce di amalgamazione e di residui di carbone di legna in alcune di quelle gallerie. L’ipotesi è che potessero correlarsi ad antiche metodiche estrattive praticate col fuoco, come quelle già descritte anche da PLINIO. Ancora più interessante è la notizia del ritrovamento fatto nel 1722, di alcuni scheletri in una galleria (BIANCHETTI, 1878). Sfortunatamente non sono stati conservati campioni dei ritrovamenti e non è possibile, quindi, averne prova ed eseguirne analisi e datazioni probanti.
In ogni caso, la frequentazione dell’area circostante le miniere dei Cani fin da epoca antica è attestata con certezza da evidenze archeologiche:

  • la piccola necropoli celtica di Bannio, risalente al primo secolo a.C., sita sul versante prospiciente i Cani;
  • la necropoli datata alla prima epoca imperiale scoperta a Vanzone, posta cioè in fondovalle ma in rapporti topografici diretti col complesso minerario;
  • un antico tracciato di penetrazione che si snoda lungo il crinale soprastante l’area mineraria;
  • uno dei pochi insediamenti stabili della metà del XIII secolo localizzato poco ad est del complesso minerario;
  • il ritrovamento, avvenuto nel secolo scorso in prossimità di una delle gallerie più antiche, di una piccola campana di bronzo di epoca sicuramente imperiale (Figura 6; PIANA AGOSTINETTI, pers. com.).

Archeologia: la necropoli di Bannio

I primi reperti archeologici ritrovati a Bannio Anzino sono quelli affiorati durante gli scavi per la costruzione delle scuole comunali, nel 1937.  Il terreno era fuori dall’abitato, sulla sinistra della strada da Pontegrande, ad un centinaio di metri dal ciglio nord-est dell’altopiano morenico.
I lavori hanno distrutto parecchie tombe ed i loro corredi sono andati dispersi (CARAMELLA, P. e DE GIULI A., 1993). Si sono salvati solo i pochi oggetti recuperati dal parroco Don Alfonso Rampone ed ora conservati presso il Museo Civico di Novara.
Fra il 1953 ed il 1956 Michele BIONDA (1960) ha effettuato scavi nel cortile delle scuole ed ha riportato alla luce 6 tombe intatte ed alcune altre sconvolte. Il materiale rinvenuto è conservato presso il Museo Galletti di Domodossola.
Nella tradizione orale locale si parla di altro materiale archeologico trovato anche durante la costruzione delle abitazioni nei terreni adiacenti alla scuola, ma è noto anche come sia andato distrutto o disperso.
Le tombe rinvenute dal BIONDA (1960) erano tutte ad inumazione. Erano orientate est-ovest e delimitate da pietre, I corredi presentavano affinità con i materiali rinvenuti nel 1937 o fuori tomba. Orcioli, un vaso a trottola (forme tipicamente local), e terre sigillate di officine dell’Italia settentrionale, fra le quali due pezzi a firma di Aco. Ancora, numerose le fibule, fra cui quelle di tipo Ornavasso e, particolarmente importanti, tre in bronzo di schema Tardo La Tène. Sono del tipo Bannio: caratterizzate da lunga molla a spirale con corda esterna ed arco ribassato in lamina triangolare. La necropoli stata datata fra la seconda metà del I sec. a.C. e la prima metà del I sec. d.C..

Archeologia: la necropoli di Vanzone

Più o meno coeva è la necropoli di Vanzone. Fu scoperta nel 1874, durante gli scavi per allogare le fondazioni dei muri del nuovo cimitero.
All’epoca furono rinvenuti alcuni oggetti, in parte andati dispersi. Ne furono recuperati solo 22 dal cav. Zaverio Calpini che li donò al Museo Galletti di Domodossola.
Dalla sommaria descrizione che ne fece il POLLINI (1896) risultarono:

  • n. 3 fibule in bronzo, di cui due piccole ed una grande;
  • n. 2 anelli in argento, uno digitale ed uno omerale;
  • n. 1 cuspide di lancia in ferro;
  • n. 1 falciola in ferro;
  • n. 1 vasetto in vetro a forma di bicchiere;
  • n. 1 piccola coppa in terra nerastra finissima;
  • n. 1 patera di tecnica aretina;
  • n. 1 poculo, 1 tazza, 4 ciotole e 6 orcioli in terracotta.

Dalla sommaria descrizione non è possibile stabilirne con precisione l’età. Si può solamente proporre, per la presenza della Terra Sigillata e della coppetta a pareti sottili, una datazione a partire dal I sec. d.C..

immagine nel testo

Figura 3 – Schema di filone con mineralizzazione aurifera. Filone discordante (1) e filone concordante (2 ) con la laminazione dell’incassante (MDS 86).

Presenze dal Medioevo

Da 1291 è attestata la frequentazione e la presenza in valle di almeno due minatori o metallurgisti. Sono identificati con il nome di battesimo (Committe  e Petro de Cagna) e l’indicazione del mestiere (argentarii ) su un atto ufficiale. La specificazione del mestiere ne sottolinea il ruolo assunto nella società locale e, per esteso, il riconoscimento dalla categoria.
Tutti questi indizi, seppure non probanti, giustificano la tesi tradizionale di far risalire ad epoca romana la conoscenza del giacimento dei Cani. Da qui avrebbe anche preso origine l’industria mineraria locale che si è sviluppata a partire dal XV secolo e che ha raggiunto la sua massima espansione fra il XVII e il XVIII secolo. Di seguito, poi, l’ovvio sviluppo post  Rivoluzione Industriale.
Molto più lenta è stata, al contrario, l’evoluzione delle tecniche estrattive e metallurgiche. La metallurgia secondo il metodo tradizionale per amalgamazione e sublimazione (bruciatura), si è mantenuta sostanzialmente intatta fino all’inizio del secolo scorso, anche quando l’attività ha raggiunto la dimensione industriale. Ancora nella metà circa dell’Ottocento, nel grande stabilimento Mazzola di Battiggio nonché in quelli di Pestarena, Borca ed ancora Battiggio da parte della The Pestarena United Gold Mining Company Limited erano seguite quelle stesse metodiche.
Diversamente è avvenuto per le innovazioni afferenti la predisposizione di nuove infrastrutture, la progettazione dei cantieri estrattivi e l’approccio gestionale al raggiungimento dell’equilibrio coltivazione/produzione-ricerca/investimenti . Per questo bisogna attendere l’ultima gestione inglese e, soprattutto, la direzione dell’Ing. BRUCK degli inizi del Novecento quando la proprietà di tutte le miniere della valle è passata alla ditta Ceretti di Villadossola.

I risultati della ricerca

Fra i risultati più interessanti fin qui conseguiti dalla ricerca è la valutazione dell’economicità dei giacimenti e dell’industria ad essi collegata, le cui fortune fino alla metà del XVIII secolo, a parte casi eccezionali, sono dovute soprattutto a una gestione sui generis dell’indotto.
Oltre a ciò è stata definita la ricostruzione dei metodi di lavoro più tradizionali, improntata sulla possibilità di rapportare e verificare i riscontri della fonte orale con le documentazioni storiche originali e le emergenze della cultura materiale. Per la conservazione del materiale raccolto, soprattutto per quello fotografico in parte difficilmente ripetibile, è stato scelto il supporto informatico poiché assicurava le maggiori garanzie di conservazione e di fruibilità. E’ quindi stato realizzato in un ipertesto su CD-ROM articolato per capitoli monografici:

  • i giacimenti auriferi dell’Italia Settentrionale ed in particolare quelli ossolani con le relative caratterizzazioni geologiche, giacimentologiche e giaciturali;
  • le tecniche estrattive ricostruite mediante ausilio di tavole grafiche, testi esplicativi ed emergenze originali;
  • le tecniche di trasporto, alcune delle quali estremamente singolari e particolari nonché caratteristiche della regione;
  • la metallurgia suddivisa nelle due fasi specifiche dell’amalgamazione e della sublimazione, illustrate mediante riprese fotografiche e filmati che ricostruiscono fedelmente quanto tramandato dalla fonte scritta del XVII secolo.

La persistenza delle emergenze strutturali e culturali legate all’industria è sopravvissuta fino ai nostri giorni. E’ possibile ancora vedere le tracce delle scansioni evolutive dell’industria metallurgica percorrendo una sorta di itinerario degli stabilimenti che si snoda lungo la valle.

Percorso di archeologia industriale a Battiggio

Si inizia da Battiggio dove si riconosce il canale che derivava l’acqua dell’Anza (Figura 7) e la trasferiva all’impianto Mazzola (1850). Qui era elemento indispensabile per il funzionamento di varie sezioni dello stabilimento:

  1. per le camere di condensazione a pioggia approntate per abbattere i fumi prodotti dall’arrostimento del minerale arsenicale dei Cani;
  2. per ventilare  i forni di arrostimento;
  3. per azionare i mulinetti della sezione amalgamazione.

Ancora si riconosce la strada dei vagonetti  che collegava la stazione di arrivo della funivia proveniente dai Cani allo stabilimento allorché passò alla gestione inglese. Ed infine, all’inizio dell’inverno con la complicità della prima spruzzata di neve, da Bannio è possibile individuare i resti della strüja (Figura 8). Era la strada percorsa dalle slitte impiegate per trasferire il minerale dai cantieri estrattivi, in quota, allo stabilimento, in fondovalle, prima della costruzione della funivia.

Percorso di archeologia industriale a Pestarena e Borca

Risalendo la valle ed addentrandosi nell’abitato di Pestarena si distinguono, più o meno integrate nelle strutture successive e negli attuali cambi di destinazione d’uso, parti originarie dell’impianto costruito dagli Inglesi (Figura 9). In particolare sono ancora conservati la sezione amalgamazione e l’ingresso del Pozzo Maggiore (Figura 11). Quest’ultimo era uno scavo verticale che collegava la superficie con i livelli di coltivazione più profondi. Aggirandosi fra le case è immediato ed intuitivo leggere riferimenti architettonici all’edilizia industriale o imbattersi in strutture o attrezzature specifiche inserite nell’evoluzione urbanistica che ha trasformato gli elementi edilizi (Figura 10) in funzione della mutata vocazione della valle, oggi prettamente turistica.
Si pensi che nel periodo di maggiore attività, nel Novecento, esistevano a Pestarena tre locande ed anche un cinematografo.
Proseguendo ancora verso l’alta valle si giunge a Borca dove i ruderi del locale stabilimento sono ridotti ormai a testimoni essenziali. Ma dove è possibile percorrere parte della vecchia miniera della Guia, resa fruibile turisticamente dalla passione di Primo ZURBRIGGEN. È stato allestito anche un piccolo museo di attrezzi e strumenti, alcuni dei quali comunemente e diffusamente utilizzati in epoca pre-Rivoluzione Industriale.

Percorso di archeologia industriale in Val Quarazza

Proseguendo per la laterale Valle Quarazza lungo un agevole percorso nel bosco si raggiungono i resti che testimoniano l’ultimo sviluppo tecnologico legato alla metallurgia dell’oro anzaschino. Sono i ruderi dell’impianto di cianurazione della Crocetta. Si tratta delle vestigia dello stabilimento (ridotte a testimoni delle strutture murarie) e degli edifici (la Città Morta, il villaggio dei minatori oggi in parte riconvertito in abitazioni estive) che era destinato all’epoca dell’attività mineraria sia ad uso residenziale che infrastrutturale (uffici, magazzini, officine, locali compressori, etc.).
E’ analogo, anche se di dimensioni inferiori, a quello di Campioli sito nella media valle Anzasca il quale già dagli anni Ottanta del secolo scorso ha subito modificazioni legate al riuso delle strutture edilizie (Figura 9). Lo stabilimento di Campioli si localizza in prossimità dell’imbocco del Ribasso Morghen, una galleria di 2222 metri scavata dai fratelli Spezia (Figura 12 e Figura 13). Questi imprenditori avevano finanziato l’impresa in parte in proprio ed in parte cedendo le azioni di una società costituita allo scopo, con l’obbiettivo, per altro raggiunto, di intercettare a maggiore profondità rispetto ai lavori precedenti tutti i ventitré filoni noti nella zona compresa fra il Morghen e Pestarena (Figura 14).

Ma molte altre sono le emergenze che si possono scoprire e riscoprire lungo i sentieri della valle che, proprio nell’ottica dell’abbracciata vocazione turistica, avrebbe tutto l’interesse a valorizzarle, anche nel rispetto della propria identità storica e culturale. A dimostrazione di ciò è il successo che stanno riscuotendo la visita guidata alla miniera della Guia, quella al museo di Pestarena e quelle alle strutture salvate, manuteniate o ricostruite dall’Associazione Culturale Figli della Miniera.

Pestarena, Macugnaga, provincia del Verbano-Cusio-Ossola, Italia

Battiggio, Vanzone con San Carlo, provincia del Verbano-Cusio-Ossola, Italia

Vanzone con San Carlo, provincia del Verbano-Cusio-Ossola, Italia

Bannio Anzino, provincia del Verbano-Cusio-Ossola, Italia

Bannio Anzino, provincia del Verbano-Cusio-Ossola, Italia

Casarza Ligure, città metropolitana di Genova, Italia

Santa Maria, Maissana, provincia della Spezia, Italia

Defensola, Vieste, provincia di Foggia, Italia

Note di aggiornamento

2023.11.10

È riportato, di seguito, un testo postato da Giovanni Zandegiacomo Seidelucio sulla pagina FB del Gruppo Archeologico Cadorino. Il testo è relativo al ritrovamento di una campanella di bronzo ed è arricchito di considerazioni interessanti. 
Il riferimento alla campanella dei Cani (Figura 6), in Valle Anzasca non è diretto, ma ricordiamo che nella miniera dei Cani è stato sfruttato l’oro, ma anche per la sua fonte arsenicale.
 
…La recente scoperta in un santuario antico nel lago del Bourget, Conjux (Savoia) https://books.openedition.org/alpara/6565, di un un campanello simile a alcuni di #Lagole (#calalzodicadore) ha portato Sebastien Nieloud-Muller ad alcune interessanti considerazioni sull’uso di questi oggetti che qui riporto:
La presenza delle campane in ambito religioso si spiega con le virtù profilattiche legate al suono dell’ottone. Guy Rachet (1962: 97) sottolinea che il suono del bronzo ha “un potere purificatore e profilattico e scaccia i demoni, per questo motivo antiche cerimonie e processioni erano accompagnate dal suono di cimbali e strumenti a percussione”. Secondo lui, questo è ciò che ha spinto i cristiani a utilizzare campanelli nel contesto liturgico.
Le fonti antiche evocano la funzione di queste campane e più in generale del suono del bronzo. Plinio, citando Varrone, menziona le campane attaccate a catene quando descrive la tomba monumentale del re etrusco Porsina. Sottolinea che il vento li agitava e portava lontano il loro tintinnio, che paragona al suono prodotto presso il santuario di Dodona ( Storia Naturale , XXXVI, 92-93). In questo famoso santuario si trovava un calderone di bronzo il cui suono aveva valore protettivo. Era prodotto da una frusta di bronzo tenuta da una statua. Le catene erano armate di astragali quando soffiava il vento colpivano il calderone che risuonava a lungo (Strabone, Geografia , VII, fragm. 4).
Immagine citata nel testo
Figura 1 - Fotografia della campanella di bronzo citata nel post
 
 
 
È stato a lungo accettato che non solo le campane di bronzo fossero indossate come amuleti (Labatut 1877: 258), ma che fossero anche usate nelle cerimonie di alcuni culti (Morillot 1888; Esperandieu 1919: 342 -343). Al di là delle loro virtù protettive, il suono delle campane, come altri strumenti musicali, serviva anche ad attirare l’attenzione degli dei e costituiva un collegamento tra il mondo degli uomini e la sfera del divino (Jacquet 2013a: 26). Più in generale, l’uso di questi strumenti scandiva rituali e momenti chiave delle cerimonie religiose (Vendries 2004: 402-403). Anche la musica era onnipresente e accompagnava processioni, sacrifici e altri momenti chiave delle cerimonie e talvolta alle cerimonie erano assegnati molti musicisti (Vendries 2004; Jacquet 2013b: 32-33)
In un contesto lacustre, diversi ritrovamenti archeologici nonché fonti testuali testimoniano l’utilizzo di alcuni di questi strumenti (Nieloud-Muller 2019b: 430-432, testi nn. 27, 56 e 73-75). Campane sono state identificate ad esempio nel luogo di culto dello stagno dei Giacobini a Le Mans (Chevet et al. 2014: 150 e 157; Chevet 2016: 21 e fig. 6, n° 9: 23), a Lagole in Veneto tra cui alcune dello stesso tipo di quello rinvenuto a Conjux (Gambacurta, Brustia 2001: 262-269) e nel sito di Oberdorla in Turingia (Behm-Blancke et al. 2002, taf. 120), ecc.
Questi oggetti sono gli unici testimoni di un paesaggio sonoro che non lascia altre tracce materiali. Oltre ai vari suoni prodotti nell’ambito delle festività con l’ausilio di questi strumenti, dei corpi e sicuramente della voce (incantesimi, preghiere, canti), è necessario sottolineare anche la significativa propagazione dei suoni in un ambiente lacustre calmo e tranquillo, libero da ogni ostacolo. Nel sito di Conjux potrebbero essere caduti involontariamente o abbandonati in acqua dopo l’uso. È anche possibile che siano stati inizialmente appesi ai pali o che siano stati abbandonati dopo il loro utilizzo…
Immagine citata nel testo
Figura 2 - Riproduzione grafica (vista dal basso e due viste laterali, della campanella di bronzo citata nel post

Bibliografia

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BIANCHETTI, E. (1878). L’Ossola Inferiore.
BIONDA, M. (1960). Gli scavi archeologici di Bannio. Riv. Illustrazione Ossolana, II(1), 37-42.

CARAMELLA, P., & DE GIULI, A. (1993). Archeologia dell’Alto Novarese. Antiquarium Mergozzo, Mergozzo
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