L’oro della Valle Anzasca nel Seicento

Copertina: un’alba sul Monte Rosa vista da Pecetto. Foto MDS, 1983.

La Valle Anzasca

Questa nuova storia che viene da lontano parla di oro. Racconta dell’oro delle Alpi Occidentali e, più precisamente, di oro del Seicento in Valle Anzasca (VCO).
La Valle Anzasca si trova in Ossola. È una valle tributaria del torrente Toce, che raggiunge partendo dalle pendici del Monte Rosa, il leonardiano Monboso.
L’alta valle è famosa per i suoi panorami mozzafiato caratterizzati dall’incipiente, incombente e prominente parete est e dalle sue albe tinte di rosa, arancio e rosso (Copertina).
E per questo è la valle dei pittori, ma, soprattutto, è la valle dell’oro. Ed è proprio l’oro che l’ha resa famosa con le sue secolari estrazioni, le sue miniere, i suoi impianti mineralurgici e le sue tradizioni. Un esempio per tutti? I bellissimi e ricchissimi costumi tradizionali ricamati con intreccio di fili d’oro zecchino (Figura 1), tradizionalmente, estratto dai giacimenti della valle.

L’oro della Valle Anzasca

L’estrazione dell’oro in Valle Anzasca trova origine, fra realtà e leggenda, molto antica e si protrae sicuramente fino al 1961, anno di chiusura dell’ultima miniera. L’indizio più arcaico è il ritrovamento, presso la Miniera dei Cani, di una piccola campanella di bronzo di epoca romana, conservata al Museo Galletti di Domodossola dal 1882 (DEL SOLDATO, 1996). Invece, il più antico documento ufficiale noto è datato 29 dicembre 1291 e certifica la presenza in valle di due minatori/metallurgisti. Si tratta di tali Petro de Cagna argentario e Committe argentario (RIZZI, 1986), citati come testimoni alla stesura dell’atto. L’indicazione del loro mestiere, argentarii, è un punto fermo nella storia dell’arte mineraria anzaschina.
Il riferimento è il trattato di pace e concordia fra il conte di Biandrate (Iocelino) e gli abitanti della Valle Anzasca, compresi quelli della colonia vallesana di Macugnaga ed esteso ai minatori presenti sul territorio (gli argentarii appunto).
Un secolo e mezzo più tardi, nel 1463, Francesco Sforza (e poi Galeazzo Maria nel 1481) investirono la famiglia Borromeo dei diritti sulle miniere scoperte e coltivate nei loro feudi (ivi compresa la Valle Anzasca). La storia del diritto feudale è stata, tuttavia, travagliata e discontinua. A questa situazione si aggiungeva, nel Cinquecento, la difficile successione e divisione dei feudi di Giovanni Borromeo. Contemporaneamente, la ripresa clandestina delle coltivazioni fu favorita dalla crescente richiesta di metalli preziosi indotta dalla crisi verificatasi verso la fine del secolo.
Le tracce del lavoro e tutte le tradizioni ad esso collegate sono ancora vive ed indelebili nella cultura materiale locale. Così come il ricordo delle antiche tecniche mineralurgiche pre-industriali che occasionalmente rivivono per la curiosità dei turisti e per la passione dei discendenti dei minatori.
E poi sono le cospicue documentazioni degli archivi privati e pubblici (Archivi di Stato di Novara, sezione di Verbania, Milano, Distretto Minerario di Torino, etc.) a conservare abbondati tracce della lunga, complessa e talvolta contraddittoria storia dell’oro di Valle Anzasca.

Il Seicento in Valle Anzasca

La nostra storia che viene da lontano comincia con la concessione a scavare miniere in tutto lo Stato di Milano (quindi anche in Valle Anzasca) rilasciata il 23 maggio 1639 al Cavaliere Giorgio D’Adda (ed ai suoi soci Luis Cid e Giulio Calcino) dal governatore e capitano generale dello Stato Diego Felipez de Guzman, marchese di Leganes (CAGNA PAGNONE, 1986). Tuttavia, le prospezioni e gli assaggi eseguiti dai concessionari non produssero l’apertura di nuove miniere.
Sei o sette anni dopo comparirono sulla scena anzaschina i fratelli Antonio, Giovanni e Bartolomeo Rabaglietti (vulgo Bragaloni) di Vanzone.
I Rabaglietti erano, in realtà, raccoglitori di resina per ricavare trementina. Abbandonato questo loro mestiere si dedicarono all’attività estrattiva scavando del minerale forse già individuato dal cavalier D’Adda.
Non è certo se il D’Adda avesse notificato le sue scoperte o preferito tenerle segrete per sfruttarle in seguito. In realtà solo ventidue anni dopo (il 24 ottobre 1661) si ha notizia di una …Convenzione seguita fra l’Ill.mo Sig. Conte Antonio Renato Borromeo March.e d’Angera e l’Ill.mo S. Cav.e f. Giorgio D’ada per le miniere in Vallanzasca Giurisdiz.ne di Vogogna feudo del S. Conte Borromeo… (Civico Archivio Storico di Milano, Trivulziano, arch. D’Adda-Salvaterra, cart. 2).
I Rabaglietti, intanto, avevano creato una vera e propria impresa mineraria. Ma la burocrazia, e forse pressioni tributarie, erano in agguato. E così il Tribunale di Milano ordinò un’inchiesta segretissima sull’attività.

La vigilia di Natale del 1650 fu ordinato al notaio Antonio Brusati di recarsi immediatamente a Vanzone per visitare le miniere dei Bragaloni, raccogliere informazioni, …sequestrare di poi presso le Comunità rispettivamente li materiali, ordegni, molini e tutto quanto (…) destinato all’uso delle miniere… (DEL SOLDATO, 1986, p. 115), nonché condannare sia gli imprenditori che i proprietari ad una multa di 500 scudi ognuno.
Ed è l’accurata relazione notarile stesa dal Brusati che ci consente di ricostruire nel dettaglio l’attività mineraria e mineralurgica del Seicento legata all’oro di Valle Anzasca.

L’industria estrattiva e mineralurgica seicentesca in Valle Anzasca

Nel rapporto del Brusati è minuziosamente indicato tutto quanto attiene all’impresa dei Rabaglietti: gli impianti, le attrezzature, gli arastras o masnadori (i tipici mulinetti alla piemontese per l’amalgamazione), le fasi di trattamento del minerale, la tipologia e le mansioni della manodopera e le metodiche di lavoro (Figura 2). Anche in questo caso è ricordata la presenza di alcune donne (clicca qui), forse le mogli dei Bragaloni, impegnate nel trasporto del minerale, tout-venant o cernito, dalla miniera allo stabilimento.

La miniera d’oro dei Rabaglietti in Valle Anzasca

La miniera d’oro dei Rabaglietti si trovava presso Macugnaga, e precisamente nella montagna …vicina al fiume Anza chiamata Pestarina… (Figura 5).
La coltivazione era impostata probabilmente in un filone verticale, prossimo ad un preesistente assaggio (forse praticato dal D’Adda?). lo scavo era iniziato dall’affioramento. Prima mediante una trincea e poi in sotterraneo. I lavori erano prossimi al torrente.
La traccia della miniera sul terreno era simile a molte altre sparse in valle. Aveva l’aspetto di un’ampia fessura risultato dell’asportazione del solo filone mineralizzato sub-verticale. La stabilità della trincea era assicurata da una quindicina di puntelli trasversali (ricavati da tronchi d’abete o di larice), incastrati fra il letto ed il tetto del filone. All’interno erano presenti una decina di metri cubi di minerale già estratto (tout-venant).
Nella trincea, in corrispondenza di un arricchimento del filone, era iniziato lo scavo di un pozzo che aveva raggiunto la profondità di circa 5 metri. Il pozzo era accessibile attraverso una scala.
La trincea, a giorno, era illuminata naturalmente, mentre nel pozzo bisognava scendere con le lampade ad olio o le lucerne. Qui si trovavano ancora alcuni strumenti: dei cunei di ferro infissi nella roccia, un piccone ed una zappa.

La mineralizzazione

Il minerale presente era pirite e calcopirite (le vene d’oro descritte dal notaio) e forse anche arsenopirite (che il notaio annotava come vene d’argento). La mineralizzazione era del tipo chiamato dai minatori a spade. Cioè si presentava come un ispessimento diretto in profondità.
Le mineralizzazioni a pirite, calcopirite e/o arsenopirite aurifere della Valle Anzasca sono associate a filoni di quarzo. All’interno dei filoni assumono forme, andamenti e concentrazioni molto differenti, fino a sostituire completamente il quarzo (Figura 3).

I minatori distinguevano le mineralizzazioni in:

  • Pesci quando il diametro massimo concordava con la direzione del filone;
  • Spade quando era concorde con l’immersione del filone;
  • Ghiande era appariva in forma di piccole lenti;
  • Mosche quando appariva in forma di piccole cristallizzazioni sparse.

Le concentrazioni maggiori, in genere sub-verticali erano chiamate colonne ricche. Erano molto rare, ma potevano raggiungere occasionalmente tenori in oro eccezionali. Queste ultime erano le cosiddette cascate d’oro. In casi del tutto eccezionali hanno aggiunto tenori di metallo prezioso fino a 2800 g/t.

L’impianto mineralurgico dei Rabaglietti: sezione frantumazione

Scendendo dalla miniera e giunti il fondovalle si raggiungeva lo stabilimento mineralurgico dei Rabaglietti attraversando l’Anza su un ponticello di legno (Figura 2).
Lo stabilimento si componeva di due sezioni di lavorazione, inserite in altrettanti edifici separati. Nel primo edificio, in pietra, era sistemato l’impianto di frantumazione e macinazione. L’edificio era composto da un corpo di 10 x 5 m di lato con portico antistante ricoperto. All’interno era sistemato il frantoio (pilla o pesta), costituito da sei pestoni (magli), che eseguivano la frantumazione primaria. Il macchinario era probabilmente analogo a quelli descritti da Agricola (Figura 4, riquadro di sinistra). Al momento del sopralluogo del notaio Brusati era inattivo forse a causa della stagione invernale. Anche le puntazze metalliche dei magli erano state smontate. All’esterno, sotto il porticato, erano sistemati due mulini in pietra di differenti dimensioni, addetti alla frantumazione secondaria. Questi mulini erano del tutto simili agli arastras per l’amalgamazione, ma di dimensioni maggiori (Figura 4, riquadro di destra). Dai molini si otteneva un macinato della granulometria di un riso.
Il motore di tutto l’impianto era l’acqua di una condotta (riale) di derivazione dall’Anza. La stessa acqua era utilizzata anche per il lavaggio, l’arricchimento del minerale e l’amalgamazione.

L’impianto mineralurgico dei Rabaglietti: utensili ed attrezzi

Nell’edificio si trovavano pure:

  • un focolare di pietra con grande mantice ed un incudine necessari alla rigenerazione delle punte dei picconi e dei cunei;
  • un fornello di pietra, probabilmente un crogiolo di pietra ollare, utilizzato durante l’ultima fase di recupero dell’oro contenuto nell’amalgama;

ed oggetti di servizio, quali:

  • numerosi recipienti di diversa grandezza ed a tenuta stagna utili a raccogliere e travasare il macinato prodotto nelle diverse fasi;
  • tre setacci a differente maglia;
  • un piccone, due tenaglie, un martello, delle molle, etc.;
  • un tino con tracce dell’ultima macinazione;
  • altri due tini nei quali era posto il macinato a riposare dopo essere stato mescolato con della calce.

Questo accorgimento aveva l’intento di neutralizzare la formazione di cloruro e solfuro di mercurio prodotti dalla decomposizione del minerale che avrebbero pregiudicato l’amalgamazione.
Nel Seicento, la metallurgia dell’oro in Valle Anzasca, era ancora ammantata da esoterismo e superstizione. Per migliorare o facilitare l’amalgamazione venivano, infatti, aggiunti di volta in volta …acqua forte, le sue fecce o vjno residente, acqua vita, calcina, lescive o altre acque bollite, o distillate con calcina, o solfo, o con qualsivoglia altra cosa che si adopera per fare l’acqua forte, o cimentare come salnitro, allume, vitriolo, sale ammoniago, altri sali cavati, o artificiosi… (DEL SOLDATO, 1986, p. 118).

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Figura 5 – La mappa redatta dal notaio Brusati con la localizzazione di tutti i mulinetti dei fratelli Rabaglietti

L’impianto mineralurgico dei Rabaglietti: sezione amalgamazione

La sezione amalgamazione era sistemata nel secondo edificio. Questo era poco più di una baracca con tre lati in pietra ed uno, quello rivolto verso l’Anza, in legno. Qui trovavano posto due molinetti per l’amalgamazione (Figura 6). Ambedue erano completi di verricello per sollevare le macine ed agevolare le operazioni di caricamento e svuotamento. La sottostante ruota orizzontale era azionata dalla gora di derivazione dall’Anza.
I molinetti erano posti nei tipici tini di legno che, tramite troppo pieno riversavano l’acqua di lavaggio in prospicienti contenitori di raccolta del residuo non completamente sterile da sottoporre ad un secondo processo. All’intorno erano presenti diversi secchi, mastelli, recipienti di differente foggia e volume, oltre ad attrezzi per eventuali riparazioni delle parti lignee.
Altri molinetti erano sistemati a Vanzone lungo l’Anza, lungo il rio Lesino e presso la chiesetta del Croppo fra Vanzone e Borgone, annesso ad un mulino per granaglie (Figura 5).
Una curiosità: il Brusati non si era limitato a descrivere lo stabilimento, ma aveva ispezionato anche le proprietà dei Rabaglietti, nonché le loro abitazioni poste a Valleggio (quella di Bartolomeo), a Ronchi (quella di Giovanni) ed a Canfinello (quella di Antonio).
Ed anche qui erano presenti attrezzature: nelle cantine, nelle cucine ed addirittura nelle camere dei Rabaglietti. Fra queste anche mulinetti con bracci di ferro atti al funzionamento manuale, tipo quelli descritti da Biringuccio (BIRINGUCCIO, 1559, p. 295) (Figura 7) o ricordati nella grida a stampa dello Stato di Milano dell’8 febbraio 1691 (DEL SOLDATO, 1986, p. 119). È un’osservazione che implica, evidentemente, come l’attività metallurgica venisse proseguita anche in inverno, quando il gelo inibiva il “motore” idraulico dell’impianto principale. Testimonianza dell’attività invernale erano le tracce di mercurio in uno dei mulini a mano, i mucchi di macinato nero e pesante presenti al loro intorno, nonché il fornetto con mantice e crogiolo presenti in casa di Antonio.

Un’impresa redditizia

L’attività dei Rabaglietti era iniziata ufficialmente nel 1647. Questo risultava da una lettera del 9 giugno inviata al Podestà di Vogogna nella quale indicavano che, terminata la costruzione dello stabilimento, avrebbero iniziato a trattare il minerale aurifero dopo la festa di San Giacomo (25 luglio).
Per un paio d’anni l’attività sarebbe stata svolta solo dai tre fratelli. Poi, nel 1649 avrebbero assunto un primo minatore todesco, seguito da altri tre. Gli operai erano tutti todeschi intendendo realisticamente che fossero tirolesi. Gruppi di tirolesi, infatti, sono stati presenti in Valle Anzasca in differenti periodi e soprattutto a seguito delle crisi delle loro miniere d’argento.
La fortuna della società Rabaglietti è testimoniata dalla dimensione industriale, dalla modernità dell’impianto di trattamento, dall’incremento di manodopera sia fissa (i tirolesi) che avventizia (come attesterebbe un contratto del 16 marzo 1649 stipulato con certi Burcai) e dall’acquisto di nuove proprietà terriere da parte di Giovanni ed Antonio.
Ma la testimonianza più interessante è data dal risultato dell’analisi (il saggio) fatta eseguire dal notaio Brusati sul minerale raccolto durante il sopralluogo. …Facendo le debite proporzioni con le unità di misura indicate per l’epoca, risulta che tale campione aveva un tenore di 230 g/t dl’oro. Seppure non si abbiano sufficienti indicazioni per ritenerlo di qualità rappresentativa, si può ragionevolmente supporre che la mineralizzazione fosse molto ricca… (DEL SOLDATO, 1986, p. 120).

Conclusioni

La breve, ma fiorente attività minerario-mineralurgica dei fratelli Rabaglietti è stata una finestra preziosa per la definizione dell’indistria mineraria legata all’oro nella Valle Anzasca del Seicento.
In realtà l’avventura dei Rabaglietti fu interrotta precocemente dalla controversia amministrativa sorta fra i Borromeo e lo Stato di Milano. A seguito di questa i Rabaglietti non furono presenti al sopralluogo del Brusati. Anzi non si erano neppure fatti trovare, lasciando alle mogli la custodia dell’impianto e delle attrezzature. Ciò non ne impedì il sequestro e l’indizione dell’attività.
Ma la situazione era più complessa. Da una parte i Borromeo reclamavano il loro diritto sulla miniera e sulle decime conseguenti e dall’altra lo Stato di Milano esigeva il pagamento dell’annata sulla miniera da parte dei Conti.
La risoluzione del contenzioso fu la sentenza del Magistrato Ordinario che …dichiara ed ordina di doversi assolvere d.o Conte Gio’ Borromeo dalla pretensione e petitione del Regio fisco, conforme al sud.o voto fiscale de 18 giugno; et a lui competere le ragioni di cavare, e far cavare d.e miniere nelle giurisditt.ni; conforme al tenore del sottoscritto Privilegio di s.a inserto. Pero’ esser egli tenuto al pagamento dell’annata per i tempi, che rispettivam.te è stata imposta: et che a questi effetti si debba citare a vedere liquidare la quantità che deve pagare. et per quali tenori citati anco esso Regio fiscal, alla forma di ragione, et delli ordini… (DEL SOLDATO, 1986, p. 121).
Dalla puntigliosa relazione del notaio Brusati emerge una testimonianza fondamentale della storia mineraria legata alla coltivazione ed alla mineralurgia dell’oro nella Valle Anzasca del Seicento. E si può immaginare estendibile sia all’Ossola ed agli altri analoghi giacimenti auriferi primari delle Alpi.

Si paventa anche come il governo milanese, legato alla Spagna, fosse attento a fiscalizzare ogni tipo di risorsa, rimanendosi però estremamente rispettoso dei diritti goduti dalla classe nobiliare. …Al di fuori delle aree di ingerenza feudale o allodiale riconducibili a famiglie nobili, esisteva invece una certa regolamentazione, seppure affidata alla compilazione di “capitoli minerari” ispirati di volta in volta e redatti dalle autorità locali, anziché da quelle centrali.
Tracce di tali regolamenti si sono trovavate in alcune documentazioni d’archivio e riguardavano sia la coltivazione delle miniere che la ricerca mineraria. Quest’ultimo argomento assume particolare rilevanza poiché l’istituto del “permesso di ricerca” verrà introdotto nella legislazione solo molto tempo piu tardi, col R.E. 30 giugno 1840… (DEL SOLDATO, 1986, p. 121).

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