Copertina – Pianta e sezione schematiche attraverso la vetta del monte Bardellone ed i ruderi del castello dei Signori di Celasco (da BERNABÒ BREA, 1941)
Il castello dei Signori di Celasco sul monte Bardellone
Una delle comunità residenziali più antiche del territorio di Levanto è quella altomedievale raccoltasi attorno al castello dei Signori di Celasco.
L’insediamento di trova sul Monte Bardellone, in posizione dominante sia sulla valle di Levanto che sulla Val di Vara. In particolare è in comunicazione visiva diretta con il castellaro di Pignone e la Pianaccia di Severo, nonché è posto lungo un’antica via di collegamento fra il mare e l’entroterra. Inoltre la tipica morfologia a doppia vetta conica del monte Bardellone (Figura 6 in Levanto: la valle e la presenza umana), gli sporadici ritrovamenti di superficie e la presenza della tomba a cassetta di Case Campodonia (Figura 1) indicano una frequentazione dell’area già dall’Età del Ferro, nonché la possibilità di un insediamento precedente a quello del castello.
Della comunità rimangono notizie piuttosto vaghe oltre ai pochi ruderi ed al coevo spianamento artificiale sulla cima più elevata del monte Bardellone. Quella modifica consentì di ricavare uno spiazzo regolare di 22 metri di lato, fortificato e dotato di una torre (Copertina). Del castello restano uno spezzone della cinta (angolo Sud-Est, Figura 2) e le fondazioni della torre (Figura 3 e Figura 4). Questa è posta sul fianco dominante la sella che separa le due cime del monte. Appare molto angusta. Il diametro esterno è 5,30 metri e le pareti hanno spessore 2 metri. Il vano interno, circolare, è di soli 120 cm. Era uno spazio sufficiente solo a consentire la salita in cima all’edificio del quale, per altro, non si conosce, né si ipotizza l’altezza.
Verso il pendio, il basamento è semicircolare, mentre all’interno è rettilineo (Copertina). La muratura è in conci irregolari, legati con abbondante malta.
BERNABÒ BREA (1941) datò induttivamente la muratura ad epoca altomedievale per la maggiore somiglianza alle tipologie romane che a quelle comunali.
Materiali locali per il castello dei Signori di Celasco
Da una rapida indagine appare che tutti i materiali impiegati sono di provenienza o produzione locale.
La vetta del monte Bardellone è in arenaria. Sono arenarie della sequenza del Complesso di Canetolo. Si tratta di arenarie a grana fine, micacee, di colore grigio se fresche e marroncino o rossiccio se alterate. In affioramento si presentano in strati intensamente fratturati e dai quali è facile ricavare abbozzi di conci. Talvolta la prevalente presenza di uno dei sistemi di frattura consente addirittura di isolare lastre grossolane e relativamente sottili. A questa particolare caratteristica si potrebbero riferire le lastre della tomba a cassetta di Case Campodonia (Figura 1), ma rimane solo un’ipotesi in mancanza di un’analisi diretta sui materiali originari.
Agli strati arenacei si intercalano livelli di argilloscisti e marne.
La sequenza ed il suo grado di alterazione si apprezza lungo l’affioramento sottostante le fondazioni del castello (Figura 5). Qui, fra l’altro, si apre una struttura interrata di origine certamente antropica: una sorta di antro di dimensioni modeste che avrebbe potuto essere utilizzato come ricovero di animali (Figura 6 e Figura 7) in tempi recenti. È da escludere una connessione diretta con la struttura del castello.
Un affioramento interessante e significativo si trova una decina di metri sotto i ruderi del castello. Qui l’arenaria è attraversata da una fratturazione regolare, disposta lungo tre sistemi fra loro ortogonali che isolano conci grossolani già naturalmente. La situazione è evocativa della fonte di approvvigionamento dei materiali impiegati nelle murature.
All’interno della sequenza litologica del Complesso di Canetolo, viene distinto un caratteristico intervallo prettamente calcareo. Si tratta dei Calcari di Groppo del Vescovo che, lungo il versante affiorano poco distante, in corrispondenza della strada Bardellone-Cassana. Sono strati di calcari micritici, grigio chiari fino a bianchi, suscettibili di essere stati impiegati per la probabile produzione della calce usata nell’abbondante malta delle strutture del castello di Celasco.
I materiali per il castello dei Signori di Celasco
Come anticipato, da quel poco che è rimasto delle strutture fondali e di elevazione emerge l’impiego prevalente di malta quale legante degli elementi lapidei.
I conci sono prevalentemente grezzi o scarsamente rettificati. In prevalenza sono spezzoni di strati di arenaria locale, cavati poco al di sotto della sella che divide le due vette del monte Bardellone. Rari sono i conci in calcare siliceo (a frattura concoide), grigio chiaro o rosato. Sono spezzoni di strato dei vicini Calcari di Groppo del Vescovo, probabilmente scartati dalla produzione della calce. Quest’ultima, in effetti, è piuttosto impura per la presenza frequente di granuli e frammenti spigolosi duri e rosei. Testimoniano una cottura non perfetta, forse anche dovuta alla presenza di silice nella composizione del calcare.
Anche l’impasto della malta appare imperfetto o poco accurato, con frequenti bollosità rivestite internamente di patine bianche e polverulente, granuli disfatti, frustoli di laterizi e residui vegetali.
Lo scheletro è una sabbia medio-grossolana con un 20% di frazione maggiore di 2 mm. Vi si distinguono grani di arenaria micacea, serpentinite molto scura o del tipo ranocchiaia, quarzo, calcare, siltite, argilloscisti e plagioclasio, scaglie di pirosseno e frustoli di ceramica arcaica. La possibile provenienza della sabbia, anche in ragione della morfologia dei granuli (35% tabulari, 30% prismatici, 20% appiattiti e 15% arrotondati) è quella di un alveo di calma o di un litorale riparato, a bassa energia.
Figura 8 – L’ambiente Levanto e la posizione della linea di riva in epoca precedente al Mille. Legenda: 1. il palazzo detto di Liutprando (712-744) nella posizione tramandata dalla tradizione; 2. possibile localizzazione delle prime abitazioni. In parte è stata dedotta dal ritrovamento, per quelle prospicienti il lido, di fronti a fondazioni su pali di arenaria appoggiati al bed rock
Ceramiche medievali dal monte Bardellone
Nel 1941 BERNABO BREA eseguì un piccolo saggio di scavo fra i ruderi del Castello di Celasco, dal quale rinvenne alcuni frammenti di ceramica medievale. Altri frammenti ceramici provengono da una raccolta di superficie sul Monte Bardellone (MANNONI L. e MANNONI T., 1975). In tutto si tratta di un centinaio di frammenti, raggruppatili in 5 tipologie ceramiche GARDINI A., in AA.VV. 1985).
Il primo gruppo è composto da ceramiche arcaiche, grezze. Sono i tipici testi o testelli liguri e frammenti di olle.
I testelli della Liguria di levante sono piccoli piatti di terracotta con bordo rialzato (MANNONI T., 1965 e MANNONI T., 1968/69). La loro produzione, a livello personale o di artigianato rurale, persiste dal medioevo fino ai nostri giorni.
A corredo, compaiono vari frammenti di boccali a bocca trilobata, di colore rosso chiaro o arancione. Inoltre tre frammenti di tegami con invetriatura di color verdastro o marrone (all’interno). La produzione di pentolame invetriato è caratteristica dei centri urbani dove è presente in grande quantità, mentre è più rara nel territorio tranne alcuni casi particolari come quelli di alcuni castelli feudali (MANNONI T., 1968/69).
Dalla raccolta di superficie provengono:
– alcuni frammenti di scodelle di ceramica ingubbiata con vetrina di colore verde, tipo graffita arcaica;
– un frammento di scodella di graffita arcaica tirrenica;
– numerosi i pezzi recuperati di maiolica arcaica pisano-ligure.
La presenza della graffita arcaica e della maiolica arcaica permettono di datare l’insieme delle ceramiche ritrovate sul Monte Bardellone ai secoli XIII-XIV. Le ceramiche prive di rivestimento grezze e depurate si ritrovano anche nei secoli precedenti il XIII, ma perdurano fino al XIV-XV secolo.
In generale, il corredo ceramico descritto ricorre in quello di altri castelli coevi. Perdura la ceramica d’uso comune delle olle e dei testelli di tradizione altomedievale e produzione locale insieme a elementi d’importazione come le ceramiche ingubbiate, graffite e smaltate. Al contrario è interessante la presenza del pentolame invetriato, peculiare dei centri urbani ma raro negli insediamenti minori della Liguria orientale (MANNONI L. e T., 1975; MANNONI T., 1968/69; MILANESE M., 1978; GARDINI A. in AA.VV., 1985).
La terra dei testi
I testi o testelli sono dischi piatti di terracotta spessa e grossolana, muniti di orlo più o men rialzato. Erano usati per cuocere focaccette (Figura 9) a base di farina (castagne o graminacee varie) ed acqua, previo surriscaldamento diretto sul focolare (Figura 10). Per evitare l’adesione dell’impasto al testo, venivano impiegate foglie inumidite di castagno, ed i testi riempiti (Figura 11, Figura 12 e Figura 13) venivano impilati onde ottenere una cottura più omogenea (Figura 14 e Figura15).
Trattandosi di manufatti destinati ad accumulare calore (forte spessore), e soggetti a continui sbalzi di temperatura, meglio si adattano per la loro produzione terre refrattarie che sono ricavabili nei frequenti affioramenti appenninici di rocce verdi. La terra di gabbro, in particolare, veniva già largamente impiegata a partire dalla Preistoria nella Liguria orientale ed in Toscana per fabbricare vasi da fuoco, e a tale materiale si fece ricorso per quanto possibile anche nelle Età successive. Tra il Bracco e la media valle del Vara sono presenti le maggiori estensioni di gabbro di tutto l’Appennino.
Le tecniche di produzione ricavabili dai reperti archeologici non si differenziano sostanzialmente da quelle rimaste in uso in Liguria di Levante. Si tratta di procedimenti molto semplici, ma sufficienti a conferire ai manufatti le caratteristiche richieste: terra non depurata (Figura 16), impastata con poca acqua mediante lunga pestatura con bastoni o mazze di legno, e con un’eventuale aggiunta di un degassante (sabbia di torrente o roccia macinata); foggiatura a mano, con l’aiuto di uno stampo di legno; essiccamento all’ombra e cottura di alcune ore in una fossa riempita di legna secca, e parzialmente coperta per regolare il regime del fuoco. In base alle memorie orali raccolte negli anni Sessanta in valle Graveglia e nella valle del Vara la produzione dei testi era praticata in passato solo da alcune famiglie contadine che conoscevano le terre adatte e le tecniche di lavorazione, e ne fabbricavano da cinquanta a cento pezzi per volta durante i periodi di minore lavoro nei campi, proprio come avveniva per tutti gli altri artigianati rurali.
La produzione e l’utilizzazione domestica dei testi sono legate, come dimostrano le ricerche archeologiche, ad una economia agro-salvo-pastorale che si sviluppò nell’Appennino a partire dalla fine dell’Impero Romano di Occidente, in concomitanza con la crisi alimentare in corso nelle città. A tale fenomeno va messa in relazione l’espansione, documentata sempre dall’archeologia, del castagno domestico e della coltivazione di alcune leguminose e graminacee minori, più adatte all’ambiente montano, come il faxino, la segale, l’orzo ed il sorgo (sostituito quest’ultimo nel XVIII secolo dal granturco). L’uso dei testi raggiunse il massimo sviluppo nei primi secoli dopo il Mille, quando tale sistema di cottura era ampiamente impiegato nelle aree montane che si estendono dal Genovesato all’Emilia ed alla Toscana meridionale. Soltanto nell’area compresa fra la valle dell’Entella e quella del Magra però la produzione e l’utilizzazione dei testi sono sopravvissute fino ai giorni nostri… (MANNONI in AA.VV., 1985).
L’ambiente Levanto precedente al Borgo
Una tradizione locale narra che in epoca romana il mare giungesse ai piedi del rilievo sul quale sorge la torre di Montale.
La costruzione della torre è iniziata nel IX secolo sul luogo di un pago romano, indicato dall’Anonimo Ravennate (VIII° secolo) col toponimo di Cebula. Qui, pare fosse presente anche un hospitium. Dopo i rifacimenti succedutisi nel tempo (Figura 17), oggi costituisce il campanile della chiesa dedicata a San Siro.
L’ipotesi che il mare si spingesse così all’interno della valle del Ghiararo e che li esistesse un porticciolo o scalo marittimo, è suffragata dal ricordo del ritrovamento di alcuni tegoloni romani. Tuttavia, non sembra ricorrano corrispondenze con i risultati dello studio geofisico della piana alluvionale e dalla morfologia sepolta che ne è risultata.
Dal punto di vista paleoclimatico risulta che dall’800 a.C. si sono instaurate condizioni di clima sub-boreale . Di conseguenza si è prodotto un aumento del livello marino. L’entità e la tempistica di tale evento è stata definita sulla base della misure eseguite in corrispondenza di alcuni insediamenti costieri. Così nel 600 a.C. il livello marino era circa 180 cm più basso dell’attuale (insediamento palafitticolo di S. Rocchino) ed è progressivamente aumentato, fino a superare quello medio attuale fra I° e II° secolo d.C.. Questa attestazione viene da un livello di sabbie marine che ha ricoperto lo strato romano della necropoli di Chiavari. Ancora, fra il 300 ed il Mille si sarebbe verificata una limitata, ma veloce, ingressione marina. Il limite del Mille è suggerito dal fatto che l’orizzonte marino di Chiavari è ricoperto da uno strato contenente frammenti ceramici medioevali, quindi databili.
Relazionando questi dati con la struttura del bed rock della piana di Levanto risulta nel periodo compreso fra il 300 ed il Mille, la linea di riva doveva essere posizionata all’altezza della strozzatura morfologica dove oggi sorge la nuova stazione ferroviaria.
È altresì plausibile che in epoca antecedente potesse spingersi anche più all’interno (ammettendo che non fosse riempita completamente la varice a monte della strozzatura), ma, in ogni caso, non oltre la località S. Antonio che si trova alla confluenza dei rami Ghiare e S. Gottardo del torrente Ghiararo.
L’ipotesi più probabile è quella schematizzata in Figura 8, dove la linea di riva, contornata da una piccola area acquitrinosa, sarebbe stata limitata alla strozzatura morfologica del Terraro.
Secondo una leggenda anche il primo insediamento costiero sarebbe di epoca antecedente al Mille. Ancora, secondo tradizione, nella seconda metà del XVIII” secolo, l’agostiniano reverendo Arpe avrebbe posseduto un documento autentico che così concludeva …Actum in platea Levanti ante Palatium Liutprandi regi Longobardorum…. Del documento non è stata ritrovata traccia.
Tradizionalmente comunque è ritenuto che i ruderi ancora esistenti in Via del Paraxo siano i testimoni della residenza longobarda (Liutprando regnò dal 712 al 744) e nella zona viene quindi fissato il nucleo più antico di Levanto (Figura 8).
Esaminando la tipologia costruttiva ed il materiale impiegato sembra, però) che le costruzioni in questione siano più tarde, almeno in confronto agli altri edifici datati del Borgo.
Continua…
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