Le “pietre” del castellaro di Pignone

copertina

Copertina: ricostruzione dell’insediamento abitativo di IV-III sec. a.C., ricavato tamponando un’ampia fessura carsica (disegno di Neva Chiarenza, da https://www.archeominosapiens.it/vie-carsismo/)

Il castellaro di Pignone: storia delle ricerche

Gli anfratti carsici sulla sommità del monte Castellaro (m 332) hanno da sempre suscitato suggestioni e superstizioni.
Ad esempio, il versante che sale al castellaro era chiamato, nella cultura materiale, le fasce scure e si credeva che la vetta del monte fosse infestata dagli spiriti. Alcuni abitanti molto anziani lo rammentano ancora. E ricordano la loro paura ad arrampicarsi fino lassù, quando erano ragazzi e curavano i loro piccoli greggi.
Ma c’era un modo per esorcizzare quell’atavica paura. La tradizione ricorda che ogni tanto venivano trovati dei vasi. E per esorcizzare le presenze paurose venivano buttati, proprio quei vasi, nelle fratture carsiche.
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Chissà se questo alone di mistero e paura è stato la molla inconscia a far scattare anche le prime indagini archeologiche. 
Comunque, nel 1940 salì al castellaro il Soprintendente alle Antichità della Liguria Luigi Bernabò Brea, stimolato da Ubaldo Formentini, uno dei padri della Lunigiana storica. Nell’occasione furono rinvenute le prime ceramiche grezze, attribuite genericamente alla tarda Età del Bronzo ed all’Età del Ferro. Assieme ad esse fu rinvenuta anche una moneta romana, in circolazione prima della fondazione di Luni. Si trattava di un asse sestante (cioè 1/6 di asse) del 229-175 a.C.

E fu sempre il Formentini a sostenere le ricerche di Gino Bellani nel 1955.
In realtà gli scavi del Bellani furono animati soprattutto dalla sua grande passione e da quella del suo mentore Formentini. Ma quell’attività fu spesso contestata perché ritenuta una sorta di interferenza, un intervento non autorizzato. Comunque, nel 1956, vennero recuperati frammenti di ceramica a vernice nera definita etrusco-campana ed anfore databili ai primi decenni del II secolo a.C.. I rinvenimenti avvennero, ancora una volta, in un’area antistante ad un anfratto carsico,
Durante un terzo intervento, nel 1972, venne scavata una fossa dalla quale fu recuperato un obolo cisalpino, ovvero una moneta celtica.
In seguito, la Soprintendenza intervenne direttamente ed a più riprese, sia per salvaguardare il sito dal pericolo di essere inglobato nella coltivazione della cava attiva sul versante meridionale, ma soprattutto con saggi di scavo nel decennio 1983 – 1993.

Il materiale rinvenuto al Castellaro di Pignone è in parte esposto al Museo Civico di La Spezia.
Le informazioni archeologiche confermano una prima frequentazione umana durante l’Età del Bronzo Recente e Finale e una ripresa dell’occupazione nella Seconda Età del Ferro.
L’insediamento del castellaro di Pignone rivestiva sia funzione abitativa, che funzione cultuale.

L’ultima campagna di scavo al castellaro di pignone (2014)

Le più recenti ricerche della Soprintendenza Archeologia della Liguria sono state quelle del 2014.
Innanzitutto fu programmata una riorganizzazione, su base georeferenziata, di tutti i lavori precedent. Dei saggi di scavo succedutisi nel tempo, ma soprattutto dei manufatti antropici antichi tuttora presenti. In tal modo è stata predisposta una base importante per comprendere lo sviluppo topografico dell’insediamento antico del quale, ancora, non sono stati individuati i limiti.
Il successivo scavo archeologico ha interessato due settori della collina, uno in prossimità dell’altura lungo il versante orientale e l’altro presso il pendio opposto.
Il primo saggio è stato posizionato in corrispondenza dell’ingresso di una cavità naturale (copertina). Il sito era destinato, nella tarda Età del Ferro (IV-III sec. a.C.), ad uso abitativo. Infatti, sono stati scavati i resti di una struttura muraria realizzata con massi posti a chiusura dell’anfratto. In un secondo momento questo muro venne sostituito da una nuova struttura connessa ad un piano di calpestio interno rialzato. In definitiva l’abitazione era costituita da un elevato con intelaiatura di legno rivestita con argilla, analogamente ad altre capanne coeve del comprensorio (Figura centrale).
L’analisi archeozoologica dei resti animali ha permesso di attestare la pratica della caccia al cervo e l’allevamento di suini e ovicaprini.
Questa analisi di M. MANCUSI (2015) riflette perfettamente la descrizione dei Liguri che ne faceva Diodoro Siculo: I Liguri …compiono continue cacce, nelle quali catturano un gran numero di animali e compensano così la mancanza di frutti della terra. Perciò passando la vita sui monti innevati ed essendo abituati a traversare luoghi di incredibile asprezza, acquistano un fisico robusto e muscoloso. … Trascorrono inoltre le notti sui campi, raramente in certe rozze capanne o abitazioni, ma il più delle volte dentro rocce cave o caverne naturali, in grado di fornire loro un riparo sufficiente…
In conclusione, sarebbe ipotizzabile una prima frequentazione, purtroppo decontestualizzata, riferibile al XIII-XII sec. a.C.. Poi, dopo un’apparente interruzione, il castellaro di Pignone è stato oggetto dell’importante fase di occupazione nella tarda età del Ferro. Gli eterogenei ritrovamenti ceramici documentano la vivacità dell’insediamento almeno fino al I sec. a.C.. È l’epoca della conquista romana e della fondazione della colonia di Luna alla foce del fiume Magra nel 177 a.C.. Un periodo di profondo cambiamento dell’assetto politico. E di conseguenza si sarebbe determinato anche l’abbandono del castellaro.

Ulteriori tracce di frequentazione si registrano solo un millennio più tardi, ma sembrano riferibili unicamente a forme di sfruttamento delle risorse naturali dell’altura.

immagine nel testo

Schizzo dell’anfratto carsico oggetto di scavo. Disegno di S. Landi, da un acquarello di G. Bellani

Il problema delle arenarie

Nelle collezioni dei vari momenti di scavo succedutisi nel tempo, sono presenti numerosi manufatti litici, o loro frammenti. Le indagini petrologiche di corredo a questo lavoro sono state l’occasione per fornire qualche nuova indicazione agli archeologi.
Nella prima casistica è emerso che numerosi manufatti erano stati realizzati in arenaria.

L’arenaria è un litotipo d’uso molto frequente. E l’appartenenza formazionale del litotipo scelto per realizzare un dato manufatto poteva costituire un’informazione interessante.
Le arenarie più diffuse in Liguria Orientale sono riconducibili a due unità differenti: Quella del Gottero e quella del Macigno:

Le arenarie di Monte Gottero
Le Arenarie del Gottero (Maastrichtiano – Paleocene inf.) sono delle torbiditi. Semplificando, derivano dalla deposizione di enormi frane che si generano in corrispondenza della scarpata continentale. Il risultato, nel nostro caso, sono arenarie quarzoso-feldspatiche grigie-brune, ricche di miche. Affiorano in sequenze di strati, talvolta potenti ed a granulometria fine, oppure in banchi massivi, a granulometria medio-grossolana. In quest’ultimo caso sono definite grovacche. La fonte di alimentazione originaria delle colate torbiditiche che hanno originato le arenarie del monte Gottero, poteva essere il Massiccio Corso-Sardo.
Abbastanza frequenti e caratteristici  sono i cristalli di Kfeldspato rosa dispersi nella matrice arenacea.

L’arenaria Macigno
L’arenaria Macigno è una potente successione terrigena costituita da arenarie silicoclastiche. Sono arenaria torbiditica quarzoso-feldspatica con plagioclasio, possibili frustoli carboniosi nerastri, schegge pelitiche e lamelle argentee di Muscovite, ma anche Biotite e Clorite. La granulometria è variabile, da fine a molto grossolana. Gli strati e banchi di arenaria sono alternati a siltiti, argilliti, livelli conglomeratici (rari) e marnosi, nonché a sporadici strati calcarenitici e di arenarie ibride.
Le arenarie silicoclastiche sono grigie, grigio-azzurre o grigio-verdi al taglio fresco, ocracee se alterate. Mostrano una stratificazione con livelli molto spessi, massivi, gradati, amalgamati o con intercalazioni siltitiche di debolissimo spessore. Altre volte gli strati sono sottili e caratterizzati da laminazioni piano-parallele, ondulate o convolute.
Presentano strutture sedimentarie tipiche. Fra le più frequenti sono le controimpronte basali (flute cast, groove cast, chevron cast, impronte frondescenti, dendritiche), le strutture deformative (da carico, da espulsione dei fluidi) e le tracce biogene (di reptazione e gallerie). 
Nella parte superiore della Formazione può prevalere la frazione siltitica e possono essere presenti rari olistostromi costituiti da brecce con clasti calcarei.

I manufatti in arenaria

I manufatti in arenaria presi in esame sono essenzialmente dei pesi da telaio e dei frammenti di macine. Di un altro frammento studiato non è stato possibile definirne la funzione.

Il primo peso da telaio di Figura 1 è stato prodotto da un’arenaria ofiolitica molto coerente di colore ocra-marrone, con granuli di quarzo presenti anche in abito cristallino (Figura 2), lattei e raramente limpidi. Oltre a questi sono presenti probabili microcristalli di pirite e pirosseni (Figura 3).
È stata interpretata come un’arenaria quarzo feldspatica, medio-grossolana, ricca in granuli ofiolitici e mica, riferibile alla Formazione delle Arenarie del Gottero.
Alla medesima formazione appartiene anche un ciottolo o frammento tondeggiante di manufatto non meglio identificabile (forse parte di macina). Anche in questo caso si tratta di arenaria quarzo feldspatica, a grana media, ricca in granuli ofiolitici e mica.

Fra i frammenti di macina, quello in Figura 4 e Figura 5 deriva da un’arenaria molto fine, grigia, con microgranuli lattei e/o trasparenti, generalmente arrotondati (Figura 6). Su una superficie del manufatto si riconosce un bandatura (Figura 4 e Figura 9), costituita da numerosi granuli neri, tondeggianti, molto alterati e spesso cariati (Figura 7). Appaiono in evidenza come minute asperità. I frammenti di mica bianca e quelli di pirosseno sono rarissimi (Figura 8).
È un’arenaria quarzo-feldspatica a grana fine, grigia, con rari elementi di mica bianca (Muscovite), pirosseni ed una bandatura esterna di microcristalli neri, probabilmente di Ematite, molto alterati e consunti. Appartiene al Macigno.
La bandatura a micrograni scuri-neri presente sulla faccia convessa (Figura 9) lascia spazio all’ipotesi che possa essere il residuo di una qualche lavorazione legata al trattamento di minerale di ferro, per altro del quale è stato trovato ed analizzato un nodulo. Un esempio in questo senso è stato osservato anche su una macina di Monte Loreto.

L’analisi del frammento di una seconda macina, evidenzia che è stata ricavata da un’arenaria ofiolitica, a granuli di quarzo, grossolana (grovacca), di colorazione marrone con zone arrossate per alterazione o contatto con sorgenti di calore.
L’esame mesoscopico conferma la presenza di cristalli di quarzo e/o Kfeldspato, con abbondanti microcristalli di pirite e lamine di mica bianca. È la classifica Arenaria del Gottero. 

L’opzione di scelta fra arenaria Macigno o Arenaria del Gottero per produrre una macina era senza dubbio ragionata e non era occasionale o casuale. La durevolezza del litotipo e la granulometria della superficie di strato utilizzabile erano funzione diretta del grado di macinazione desiderato.

Manufatto calcareo

Il manufatto calcareo di Figura 10 e Figura 11 è un probabile peso da telaio. L’aspetto è piuttosto grezzo ed appare poco lavorato. È stato ricavato da un frammento calcareo sub-parallelepipedo a basi trapezie.
Al centro del lato minore è presente un foro per l’inserimento del cordino tensionale. La perforazione è avvenuta in maniera rudimentale, imponendo una rotazione disassata ad un oggetto acuminato e più duro del calcare (metallico?), Il foro è, infatti conico, con presenza di solchi di abrasione circolari in corrispondenza della sua sezione maggiore (Figura 10) e forma irregolare, appena incisa, della sezione minore (Figura 11). Di conseguenza la perforazione è stata prodotta lungo la sola direzione ortogonale alla faccia che presenta il foro di maggior diametro. In seguito è stato proceduto per contemporaneo ampliamento e approfondimento.
Relativamente alla litologia del manufatto, occorre premettere che il Castellaro di Pignone si localizza all’interno del dominio geologico della Falda Toscana ed all’interno dell’area carsica della Liguria Orientale che si estende fra la località Cassana ed il Golfo della Spezia.
Qui la presenza carbonatica e le formazioni calcaree sono evidentemente abbondanti.
Il manufatto è stato ricavato da uno spezzone di soletto di calcare marnoso, grigio fino a tendenzialmente scuro (visibile nei rari punti sani), ricoperto da una patina di alterazione marroncino-nocciola e con presenze ocracee, probabilmente limonitiche di alterazione di minuti cristalli di pirite), L’alterazione è progredita preferibilmente dalle superfici alterate delle venature. Ma è presente anche in piccoli noduli sul verso. Dall’esame delle due facce maggiori si può azzardare trattarsi dello spezzone proveniente da un unico soletto e non di un frammento ottenuto per distacco, spacco o sfaldatura da uno strato di spessore maggiore.
L’insieme delle descritte caratteristiche macroscopiche fa ricondurre la litologia del manufatto alla Formazione di Ferriera (Hettangiano superiore – Sinemuriano inferiore). Diversamente, ma con minori probabilità, si potrebbe pensare ad un livello retico dei calcari di Portovenere. Per dirimere il problema occorrerebbe una verifica dell’eventuale presenza micropaleontologica, ovviamente infattibile poiché distruttiva.
Ambedue le formazioni citate affiorano fra Pignone e Corvara e quindi all’intorno del Castellaro di Pignone. Conseguentemente, l’originario litologico è da ritenersi di provenienza strettamente locale e probabilmente da raccolta (eventualmente con piccoli ritocchi) e non da estrazione.

Manufatti in ofioliti

Fra i campioni esaminati è presente anche una grossa scheggia da una roccia vulcanica, ofiolitica, molto scura, femica (Figura 12), Il frammento di manufatto appare esternamente molto levigato, quasi lucido, con superficie lucente ed evidenti tracce di usura da sfregamento o trascinamento (Figura 13).
Il manufatto è interpretato come un frammento di peso da telaio.
Un primissima ipotesi è che si tratti di un FerroGabbro o, in alternativa, di una Norite (di Mattarana), una diorite o una peridotite.
Un fattore determinante per la diagnosi è stata un’osservazione in particolare. In corrispondenza di un cristallo di quarzo si è evidenziata una serie di microcristalli neri, lucenti, ad abito indeterminabile (anche a 4,5 x), forse cubico (Figura 14).
Nella pasta di fondo verde scuro – nero, spiccano elementi chiari, disarticolati in forme prismatiche, che potrebbero essere cristalli di Olivina o, più facilmente, pirosseni alterati e disarticolati. Queste nuove evidenze avvalorerebbero trattarsi di una peridotite.
Come detto, la superficie esterna è talmente levigata ed usurata da poter essere assimilata ad una sezione lucida. Alcune foto eseguite su tale superficie hanno evidenziato la presenza di cristalli di olivina in incipiente fase di alterazione, tanto da risultare frammentati e disarticolati (Figura 15).
In conclusione il campione è stato diagnosticato come una roccia ofiolitica, probabilmente una peridotite. Un litotipo molto consistente e pesante, adatto ad essere utilizzato come peso da telaio.

Nodulo di minerale di ferro

Si tratta di un elemento naturale di forma elissoidale, molto pesante. Probabilmente è un nodulo di minerale di ferro (Figura 16).
È un elemento particolare e di grande interesse. Forse uno dei primi e, comunque, dei pochi elementi di questo tipo trovati. E soprattutto potuti analizzare.
La forma arrotondata, elissoidale, deriva con grande probabilità dall’aver subito un’intensa azione di trasporto in ambiente torrentizio o fluviale.
Microscopicamente, sulle porzioni pulite della superficie, si distinguono due situazioni differenti: in gran parte il minerale si presenta in forma amorfa (Figura 17) a lucentezza metallica e colore grigio-nero, ma occasionalmente emergono microcristalli cubici isolati, appressati o aggregati, di colore nero lucente ed a facce lisce (Figura 18). Molto più rari sono gli elementi cristallini, analoghi ai precedenti, ma di colore rossiccio-bruno.Localmente il minerale metallico, amorfo, è rivestito da un minerale fibroso, cristallizzato, di colore bianco-verdastro (Figura 19).
Una prima ipotesi è che la presenza dell’anfibolo indichi la provenienza del nodulo di ferro da una mineralizzazione in originale giacitura entro una peridotite serpentinizzata o una serpentinite.
La tipologia dell’associazione minerale (mineralizzazione di ferro e rivestimento da parte di anfibolo) indicherebbe una derivazione da giacimenti locali, della Val di Vara. Ma potrebbero essere di pertinenza anche più estesa a tutta l’area ofiolitica della Liguria Orientale.
Il nodulo è stato raccolto con grande probabilità nel greto di un torrente. Potrebbe essere sia locale che esterno alla Val di Vara. Ma comunque raccolto a notevole distanza dal giacimento primario, dato il grado di arrotondamento.

Il giacimento più prossimo, e dal quale potrebbe essere derivato il ciottolo è quello della miniera di Frassoneda. Una miniera molto nota nella cultura materiale locale e molto cercata. Ma della quale si hanno solo vaghe notizie bibliografiche. Inoltre non è mai stata individuata sul terreno la precisa localizzazione dell’imbocco.

La miniera di Frassoneda

La miniera di Frassoneda viene localizzata, dalla tradizione, ad un chilometro scarso dal paese di Pignone, sulla sponda sinistra dell’omonimo torrente. È anche stata oggetto di concessione, ma a cavallo dei territori dei comuni di Pignone e di Beverino.
Secondo la tradizione locale, una presenza di minerale era nota in zona forse già nel Seicento (PALLENZONA, DI GIOVANNI, & BORGO, 1988). A quell’epoca l’ematite che accompagna la mineralizzazione a manganese, veniva usata da artigiani locali in un punto imprecisato del comune di Pignone. Quella zona veniva malamente definita dal toponimo Frassoneda. Era una zona famosa per la manifattura di attrezzi in ferro. In realtà i documenti d’epoca, conosciuti, ricordano solo l’esistenza di pietre ornamentali da taglio e dei diaspri, senza citarne esplicitamente la mineralizzazione (DEL SOLDATO & PINTUS, 1985).
La tradizione orale ricorda che la fusione avveniva in piccoli forni di cui rimarrebbero ancora deboli tracce. Una località Frassineda è ricordata da ZACCAGNA (1925)  per la presenza di ricerche per minerali di rame. Analogamente lo Jervis  ricorda una miniera cuprifera di Frassoneda. L’accenno interessante è che in quella miniera, posta a meno di un chilometro da Pignone, era coltivata della calcopirite nel gabbro o nella serpentinite.
L’unico indizio che avvalori la presenza di un sito estrattivo è che in prossimità dell’area mineraria di Frassoneda esiste ancora un gruppo di case che viene identificato col toponimo “Fucina”.
Un’attività documentata della miniera risale al solo anno 1861, dopodiché fu abbandonata (JERVIS, 1874). La mineralizzazione era data da prevalente Calcopirite con raro rame nativo in filoncelli posti al contatto fra serpentinite e gabbro.
Di questa attività è conservata memoria presso l’Archivio di Stato di Genova (1859).

Alcune brevi considerazioni

La miniera di Frassoneda ed il suo alone di mistero è solo un labile indizio. Oltretutto non si hanno neppure certezze sulla sua mineralizzazione, inseguita, saggiata e mai trovata. È un’emergenza della cultura materiale.
Tuttavia quello che emerge con maggiore originalità dalle indagini eseguite è il nodulo di minerale ritrovato al castellaro. Un ciottolo, data la sua forma, di minerale portato forse ai piedi del castellaro da un torrente. 
E poi ci sono quei microcristalli neri, forse di ematite, sulla macina.
Sono tracce labili, ma la Liguria Orientale è terra di miniere e minatori. 
E poi che dire di quelle tracce di minerale, questa volta cuprifero, trovate su un altro frammento di macina, a Monte Loreto?
Forse sarebbe interessante studiare ancora il castellaro di Pignone, del cui sito archeologico non sono stati ancora individuati i limiti…

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