Copertina – Il sentiero fra le risaie, il romanzo di Cinzia PANZETTINI, ma anche un’immagine evocativa (da duecentopagine.blogspot.com)
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Territorio di Lomellina, intreccio di tradizione e storia
Dopo tracce di presenze romane, una tradizione poco condivisa ricorda un castello costruito dai Goti in una località Sale o Sala, fra Tortona e Mortara (AMATI, 1867, p.41).
Oggi Sale è un piccolo comune della provincia di Alessandria. Nel 1552 è stato contado dei d’ADDA che lo acquistarono dai BOTTA.
Dopo un periodo di autonomia durante la dominazione spagnola (nel Ducato di Milano –Figura 1– fra il 1535 ed il 1713, conclusa col trattato di Utrecht) e la prima dominazione austriaca (1797-1815), la Lomellina fu coinvolta nelle guerre di indipendenza italiane e nei conflitti europei, subendo le conseguenze di invasioni e distruzioni. Così nel 1796 …vi passarono i repubblicani francesi, comandati da Buonaparte il quale poi vi soggiornò due giorni nel maggio del 1799 (…) addì 3 giugno del 1800 fuvvi di passaggio dell’ala destra dell‘esercito francese, comandata dal console Buonaparte; e nell’aprile1891 vi ebbe il passaggio d’un corpo di Austriaci, che si diresse verso la città di Alessandria, onde reprimere i moti liberali del Piemonte.
Sale governavasi a norma di propri statuti, che erano ancora in vigore sotto il duca Filippo Maria Visconti, il quale li riconobbe, dicendo in un suo diploma, “statuta communitatis nostrae Salarum”… (AMATI, 1867, p.41).
La tradizione e la storia di Sale riportano alla mente un altro elemento locale legato, però questa volta, al sale con la “s” minuscola, seppure fondamentale. È il Salame d’Oca di Mortara (Figura 2 e Figura 3), specialità locale che utilizza il sale come ingrediente principale per la stagionatura.
Anno 1492, Cristoforo COLOMBO (Figura 4) sbarca in America. Quello stesso anno il quarantenne Ludovico il Moro (Figura 5), autorizza la produzione proprio del Salame d’Oca di Mortara. Tuttavia la sua origine è differente e precedente. Nasce all’interno della comunità ebraica insediata a Mortara dal medioevo, che aveva introdotto l’allevamento dell’oca. Da qui a pensare alla creazione del salume che rispetta il kashrut il passo è stato breve, seppure con un’intuizione molto sagace.
L’oca, in Lomellina, è anche paté di carne e fegato (Figura 6), ma soprattutto è ragò, lo stufato per eccellenza, un piatto di antica tradizione rurale (Figura 7). L’oca era allevata per la carne, per il grasso, per il fegato e persino per le piume. Un ingrediente fondamentale del ragó erano le verze, ma quelle che avevano subito la prima gelata ,come rimane nel ricordo delle nonne. E poi lasciare sobbollire con il più importante ingrediente della cucina vera, la pazienza. …Servito con una fetta di polenta fumante, il ragò d’oca rappresentava non solo un alimento, ma un rito conviviale: si consumava in famiglia o durante le sagre d’autunno, quando nelle corti si macellavano le oche e si preparavano salami, fegati e confit… (FB_storiedilomellina; Figura 2). E, infine, i resti della lavorazione del grasso. Mentre si scioglieva per dare lo strutto, restavano frammenti di carne e di cotenna che venivano fritti lentamente per ottenere i ciccioli (Figura 8) proprio come per il maiale. E proprio come per il maiale, dell’oca, non si buttava via nulla.
La Lomellina dall’Ottocento
Dal 1814 la Lomellina fece parte del Regno Sabaudo che confinava a …tramontana, (con) la confederazione Svizzera e propriamente il cantone di Ginevra, il lago di tal nome, i cantoni del Vallese e del Ticino. A levante, quest’ultimo cantone, il governo di Milano nell’impero d’Austria, il ducato di Parma, la Lunigiana Toscana e l’antico ducato di Massa dipendente da quello di Modena. A ostro,il Mediterraneo. A ponente, la monarchia Francese e propriamente gli scompartimenti del Varo, dell’Alte e Basse-Alpi, dell’Isera e dell’Ain. (…fra questi erano compresi anche..) Gli smembramenti del Ducato di Milano, cioè: il territorio di Alessandria e di Valenza; la Lomellina; il contado di Vigevano (dove c’era un tribunale di Prefettura); la Valsesia; l’Alto e il Basso-Novarese; le provincie di Tortona e di Voghera; parte del contado di Anghiera e Bobbio… (BALBI, 1840, p.626). Nel 1840, la Lomellina, come entità amministrativa, aveva una popolazione di 121.000 abitanti (133.000 secondo AMATI, 1867), saliti a 139.600 nel 1848, distribuiti fra Mortara, Vigevano (riunito nel 1818), Lomello e Sartirana.
La regione era attraversata dalla Strada Regia che …serve all’importante commercio di Genova (incorporata al Regno nel 1815) colla Lomellina e con tutto lo Stato, e con quelli di Parma, colla Lombardia e colla Svizzera. La sua larghezza è di metri 10, il suo pendio è da 4 a 7 metri per cento, e l‘annuo canone di manutenzione ammonta a lire 115,570… (DE BARTOLOMEIS, 1847, p.1357).
Il territorio della Lomellina, intesa come provincia, era compreso …al N. colla prov. di Novara; all’E. col regno Lombardo-Veneto, da cui è separata mediante il Ticino; al S. colle provincie di Voghera, Tortona ed Alessandria, dalle quali è separata mediante il corso del Po; all’O. colle provincie di Casale e di Vercelli… (STEFANI, 1835, p.637). Una condizione geografica significativa, compresa fra gli alvei di Ticino, Po, Sesia, Agogna (CASALIS, 1840, p.71), Terdoppio e Albogna (o Albonea; CASALIS, 1840, p. 170), che ne ha condizionato fortemente l’economia. Ad esempio, per il solo territorio di pianura della Divisione di Novara, compresa fra Ticino, Lombardo-Veneto, Alessandria e Vercelli, …l’esportazione annuale del riso per gli Stati esteri ascende(va) al valore dai 14 ai 16 milioni… (STEFANI, 1855, p.805), con 13.640 ettari destinati a questa produzione (STEFANI, 1855, p.807).
Riso, risaie e mondine
…Nella Provincia di Lomellina, Montara, vicino all’Arbogna, (è) nel mezzo di una pianura, occupata in gran parte da risaje che rendono l’aria malsana; la sua cittadella, che ebbe gran parte nelle guerre degli ultimi secoli, fu demolita; essa è poco popolata, ed ha un po’ più di 4000 abitanti… (BALBI, 1840, p.666), saliti a 8.966 nei 15 anni successivi (STEFANI, 1855, p.771). A proposito di aria malsana, nel 1855 la malattia dominante erano le febbri intermittenti considerate addirittura endemiche per la regione, mentre …la maggior mortalità (era) avvenuta per malattie infiammatorie, massime del petto… (STEFANI, 1855, p.640). Nonostante questo …le risaie e le marcite formano la principale ricchezza del suolo... (STEFANI, 1855, p.771) di Mortara.
Il territorio della Lomellina si estendeva su 1.242 Kmq. Di questi, nel 1855, circa il 17% erano destinati a risaie (Figura 9, Figura 10 e Figura 11). Si trattava di oltre 21.300 ettari, pari a 213 Kmq (STEFANI, 1855, p.637). Per confronto, ad esempio nella provincia Vercelli le risaie si estendevano per 26.000 ettari circa nel 1855 (STEFANI, p. 1312). Oggi (dati 2024-2025), le risaie della Provincia di Pavia, che comprende la Lomellina, coprono 80-85.000 ettari (800-850 Kmq).
Naturalmente anche lo Stato si era occupato del settore risiero.
Il 20 settembre 1841 fu costituita una Deputazione che, nell’adunanza del successivo 28 settembre, riferiva …intorno alla coltivazione del riso… Gli aspetti dibattuti furono molti ed essenziali: da …quali specie di riso sia utile coltivare… a …se le risaie erano causa di pellagra…, dall’…inammissibilità o nocività delle risaie nei luoghi palustri, non sani ed abitati…, all’…impossibilità di coltivare riso a secco…, ecc. Ma soprattutto, di fondamentale interesse ,era chiarire la scelta delle qualità di riso da coltivare.
Le opinioni furono e rimasero differenti e opposte. Il CRUD (AA.VV., 1841) vedeva l’utilità delle coltivazioni solo nelle aree già paludose, nelle maremme e nei luoghi esposti ad alluvioni. Al contrario il GIOVANNETTI sosteneva …che la coltura del riso deve farsi in terreni bene spianati, con acque correnti e di facile scolo… (AA.VV., 1841, p.86). L’esperienza del TARGIONI TOZZETTI, verificata nel Pietrasantino, fu quella di riconoscere …che molti danni delle antiche risaie cessarono purché nelle moderne ad acque correnti non è temibile la putrefazione di molti corpi organici e la conseguente infezione dell’aria… (AA.VV., 1841, p.89). E molti condivisero che le maremme non erano assolutamente adatte alla coltivazione del riso.
A questo punto è fondamentale ricordare la figura della mondina.
Quello della mondina è stato da sempre un mestiere estremamente faticoso. Erano le donne giovani, ma anche meno giovani, che strappavano a mano le erbacce nelle risaie allagate. Un lavoro stagionale, che veniva svolto con le mani e le gambe sempre immerse in acque più o meno stagnanti (Figura 12), con la schiena ripiegata (Figura 13), sotto il sole, con unico riparo un grande cappello di paglia (Figura 14) ed in mezzo alle zanzare. Un breve intervallo per il frugale pasto (Figura 15) e la sera tutte nel dormitorio (Figura 16, Figura 17 e Figura 68), dov’era anche un angolo per consumare un boccone (Figura 18). Un alloggio di fortuna, in una cascina vicina. E la mattina, tutte insieme, a lavoro a piedi o con mezzi di fortuna (Figura 19). Non era possibile tornare a casa la sera, troppo lontana, spesso fuori provincia. Si rientrava solo dopo i quaranta giorni del contratto (Figura 67). Quindi tutte insieme a lavorare, insieme a soffrire, insieme per tutto il periodo del contratto e… con la speranza che l’anno successivo si potesse anche ritornare. Tutto questo, almeno fino agli anni Sessanta del secolo scorso.
Il riso
Dal Rinascimento, la Lomellina è stata l’habitat ideale del riso, dove si sono sviluppate qualità a chicchi diversi per differenti tipi di cottura …e quindi con differenti sapori e vocazioni culinarie (Figura 20).
La storia del riso in Lomellina si ufficializza, seppure sia precedente, nel 1475 quando Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano, scrive agli Estensi di Ferrara offrendogli alcuni sacchi di riso da semina. Un omaggio e, come tale, il dono di un prodotto ritenuto importante. Ma anche l’indizio che questa coltura era già radicata nei territori milanese e lomellino.
Poi Ludovico il Moro rese la grande tenuta agricola della Sforzesca (Figura 21), presso Vigevano, un cantiere d’avanguardia ed un laboratorio di ricerca.
Il riso per eccellenza è il Carnaroli, a chicchi lunghi e consistenti nato dall’incrocio fra Vialone e Lencino. È dagli anni Cinquanta il re dei risotti alla milanese. Poi l’Arborio, a chicchi grandi e tondeggianti che assorbono i condimenti, perciò adatto alle mantecature. Ma attenzione! Perde la consistenza ideale in pochi secondi.
Il Vilone nano, dagli anni Trenta a chicchi piccoli, adatto per le minestre, il Baldo, frutto degli anni Settanta, a chicchi lunghi e regolari che resistono alla cottura.
Dagli anni Trenta persevera il Roma, qualità storica, a chicchi grandi e perlati a cottura veloce, che rilascia amido per rendere cremosi i supplì, i timballi e gli sformati. Infine, qualità più recenti, il Sant’Andrea con chicchi che sopportano il calore ed il Selenio, qualità di interesse sovra-tradizionale, a chicco rotondo adatto alla cucina asiatica.
E col latte un piatto della tradizione che si estende dalla Lomellina a tutta la Padania, fino ai ricordi di mio nonno ragazzino a Venezia: il riso cotto nel latte (Figura 24).
Due ingredienti caratteristici delle tipiche cascine (Figura 22) della Lomellina e non solo. Il riso dei campi allagati ed il latte delle mucche (Figura 23) presenti nelle stalle.
È il senese Pietro Andrea MATTIOLI a descrivere, fra i primi, l’abitudine di cuocere il riso nel latte di vacca. È il 1544.
Il riso cotto nel latte potrebbe essere un antesignano del risotto. Consisteva nel cuocere il riso direttamente nel latte intero, senza soffritti né brodi. Poi, mescolando lentamente si otteneva una consistenza cremosa (Figura 24). Potendo, a fine cottura, veniva aggiunto burro e una manciata di grana grattugiato. L’alternativa era una versione dolce, con un po di zucchero, cannella e uva passa. In Toscana, di questo impasto dolce se ne facevano delle polpettine fritte o cotte al forno, i sommommoli.
Un altro piatto della povera, ma autentica, tradizione Lomellina era la panissa (Figura 25). A differenza dalle omonime pavese e vercellese, quella della Lomellina era preparata col riso Carnaroli o Baldo, fagioli borlotti di Gambolò (Figura 71), salame conservato sotto grasso (salam d’la duja, da nome del contenitore in terra nel quale era conservato; Figura 74) o pancetta, cipolla e un bicchiere di vino rosso dell’Oltrepò Pavese. I borlotti di Gambalò sono stati da sempre una riserva alimentare. Per la panissa erano lessati lentamente con alloro e aglio. In un soffritto di cipolla e salame veniva tostato il riso. Infine, una sfumata di vino e la cottura nel brodo dei fagioli. Nella tradizione era il piatto delle mondine e di chi lavorava nelle risaie.
Vigevano
Vigevano, importante centro e città vescovile, prossima alla sponda destra del Ticino.
È stata provincia dalla fine del conflitto tra Spagnoli e Franco Piemontesi (1748) all’arrivo di Napoleone, poi ne ha ripreso lo status nel 1814, dopo la sconfitta di Waterloo. Però, anche questa volta è stata effimera. Infatti, nel 1818, Vittorio Emanuele I riunì le provincie di Vigevano e della Lomellina, in una unica con sede a Mortara.
Vigevano non ha un ricordo storico delle risaie, mentre perpetua quello di …due filande di seta e di cotone messe in piedi testé con moltissimi perfezionamenti meccanici rinvenuti in Francia ed in Inghilterra. La filanda in seta è a vapore... (BALBI, 1840, p.676). In Piemonte ed in Lombardia questa innovazione si affacciò con le prime sperimentazioni intorno al 1806. A Novi Ligure fu l’imprenditore PELOSO ed a Torino, nel 1807, Ferdinand GENSOUL, dopo aver compiuto i primi esperimenti a Parigi un paio di anni avanti. …I vantaggi dell’apparecchio gensoliano (… Figura 26 …) erano: il risparmio di combustibile (pari a non meno del 30%) e, quindi, diminuzione di una parte dei costi di produzione; si produceva una seta più netta e più pulita, grazie alla depurazione dell’acqua delle bacinelle determinata dall’afflusso del vapore; una più agevole regolazione della temperatura dell’acqua in relazione alla consistenza dei bozzoli; un migliore dipanamento dei bozzoli che consentiva di produrre una maggiore quantità di seta… (TOLAINI, 1993).
A Vigevano fu approntato, fra il 1815 e il 1816, l’impianto nella seteria NEGRONI con 32 fornelletti.
Ma a conti fatti, in base ad una minuziosa contabilità su tre anni di attività nella filanda COTTA di Grugliasco ed a parità di fornelli a fuoco ed a vapore, l’utile non c’era, o era molto magro. A fronte di un evidente risparmio sul combustibile, c’era un’altrettanto evidente diminuzione della resa in seta e, quindi, dell’utile (TOLAINI, 1993).
Questa attività ne alimentava un’altra che era l’allevamento dei bachi da seta e la conseguente coltura dei gelsi (Figura 27) dai quali erano ricavate le foglie per nutrire i bachi, ma anche le more (Figura 28) che venivano mangiate fresche o utilizzate per preparare marmellate e sciroppi. In ultimo potevano essere recuperati i bozzoli scartati e comunque filati direttamente.
Nella tradizione della filatura, alla fine dell’Ottocento, Vigevano visse una delle sue stagioni industriali più significative grazie alla Società Milanese Cascami Seta, Nel grande stabilimento venivano rifilati e trasformati in nuove fibre i residui della filatura della seta. La società realizzò un grande complesso (Figura 29) con, come consueto all’epoca, annessa una città operaia composta da piccole abitazioni con antistanti orti, una chiesa ed un collegio operaio con centinaia di posti letto. Nel periodo di massimo splendore lo stabilimento occupava fino ad ottocento operai.
Più recente, dal 1931, la Ursus Gomma nata dall’idea di Pietro BERTOLINI, Pietro MAGNONI e Rinaldo MASSERONI per produrre scarpe e articoli in gomma. Un’altra impresa fondamentale per il territorio con il suo migliaio di dipendenti nel periodo di massimo sviluppo.
In campo calzaturiero, Vigevano è divenuta famosa proprio come La Città delle Scarpe. Una tradizione cominciata con i ciabattini (Figura 70) e con la loro attività diffusasi dalla metà dell’Ottocento nelle case ed in piccoli laboratori familiari che producevano per aziende locali.
E da Vigevano la rivoluzionaria nascita dei tacchi a spillo.
Vigevano è stata comunque una fucina di innovazione e imprese. Oltre al tessile ad al calzaturiero è da ricordare Giovanni PERONI (Figura 56) che qui fondò la sua prima fabbrica di birra nel 1846.
Ed a Vigevano, seppure polemizzati, ebbe i natali Eleonora DUSE (Figura 30 e Figura 31), grande attrice, figlia d’arte. A soli quattro anni, a Chioggia, recitò nella parte di Cosetta dei Miserabili di Victor Hugo. E da quel momento iniziò la sua carriera. Fu amica di Matilde SERAO (Figura 57), Laura ORVIETO (Figura 58), Ada NEGRI (Figura 59), Sibilla ALERAMO (Figura 60), Yvette GUILBERT, (Figura 61) Isadora DUNCAN (Figura 62), Camille CLAUDEL (Figura 63). Ebbe anche importanti amicizie amorose come quella con Lina POLETTI (Figura 64). Lasciò il teatro, ma vi ritornò con Ermete ZACCONI (Figura 65). Oggi non è più così considerata per essere stata una musa di D’ANNUNZIO (Figura 66).
Figura 11 – Paesaggio di una risaia a NORDOVEST DI DORNO nel 1770 circca (da ilmonferrato.it)
Le innovazioni
Lo sbocco al mare.
La previsione di ammodernare le comunicazioni fra il mare e Torino emerge dal discorso tenuto dal senatore CAGNONE per conto dell’Ufficio composto anche dai senatori AMBROSETTI, DI COLOBIANO, FRANZINI e PEZZA, il 18 marzo 1854. …Fino da quando colle regie patenti del 18 luglio 1844 e del 13 febbraio 1848 si stabiliva che il sistema delle strade ferrate negli Stati di terraferma da intraprendersi per cura del Governo, ed a spese delle finanze avrebbe avuto luogo colla costruzione simultanea di una strada da Genova a Torino per Alessandria e la valle del Tanaro; con diramazione verso la Lomellina, donde a Novara ed al Iago Maggiore; si prevedeva che fra le linee secondarie da lasciarsi all’industria privata, dopo intrapresa quella che congiungesse Torino con Novara per Vercelli, un’altra fra le più importanti, quella sarebbe stata che mirerebbe a riunire le linee della Lomellina e di Novara tra Vercelli e Valenza per Casale… (GALLETTI e TROMPEO, 1869, p.440; anche CARTA et alii, 1857, p.678). Un modernamente importante per l’impulso industriale della Lomellina.
Fra le innovazioni merita un posto di rilievo ed un ricordo la Mietitrebbia Lomellina che ha rappresentato una rivoluzione nella raccolta del riso.
Nel dopoguerra fu tentata l’introduzione delle mietitrebbia presenti sul mercato anche in Lomellina. Le macchine erano importate dall’America, ma l’impiego in risaia ne limitava enormemente il funzionamento. Si ingolfavano e si fermavano nel terreno molle e fangoso oppure quando i vegetali erano bagnati.
Ma l’ingegno dei fratelli Giuseppe, Angelo, Francesco e Mario LOVA di Sannazzaro de’ Burgondi risolse il problema. Smontarono pezzo per pezzo una mietitrebbia, ripensandone ciascuno. Individuarono il problema nel battitore, sottodimensionato e fragile per l’uso in risaia, nel fango. Il pezzo venne maggiorato in peso e dimensioni finché funzionò senza interruzioni. Da quel momento i fratelli LOVA si dedicarono all’adeguamento ed alla modifica alle condizioni locali delle macchine, migliorandone continuamente vari aspetti, compresa la manutenzione. Infine pensarono ad una versione cingolata (Figura 32).
Dagli anni Cinquanta-Sessanta è stata un’impresa locale che ha fatto la storia. Poi, negli anni Novanta la concorrenza straniera ed i prezzi concorrenziali ne hanno decretato il declino. Tuttavia, ancora oggi si possono vedere mietitrebbia LOVA lavorare nelle risaie.
Non solo riso, qualche antica attività della Lomellina
Il ricordo storico delle esondazioni del Po in territorio della Lomellina è forte e vivo. …Esso talvolta straripando inonda gran parte della Lomellina, e vi apporta grandissimi guasti. Vi stanno sul Po quattro porti: uno presso Valenza; l’altro vicino al comune di Bassignana; gli altri due a non molto da quest’ultimo comune. Per questi porti si va nella provincia di Lumello. Sono posti su questo fiume ventidue molini, per cui la città di Valenza ha il prodotto del diritto di macina.… (CASALIS, 1833, p. 179).
Importante ed antico (citato in documenti del 916) era il porto della località chiamata Sclavaria a Pavia, Era questo …un proto protetto da strutture difensive, segno evidente dell’importanza del luogo non solo per la navigazione… (da FB_storiedilomellina).
All’epoca non erano molto diffuse le strutture riferibili a ponti veri e propri. Più realisticament, seppure protette e presidiate, erano assimilabili ad una scafa, un traghetto, anche se poste lungo un percorso commerciale importante. E questo è tanto più vero per il fatto che furono diversi i tentativi nel tempo di costruire dei ponti. Probabilmente un primo ad opera dei milanesi nel 1201, poi più realistico per interventodei VISCONTI nel 1315, in seguito distrutto dai pavesi, ed ancora nel 1356. In seguito nessun altra informazione.
Intorno al 1720, al contrario, viene indicato in porto di Vigevano su una cartografia dell’epoca (Figura 21 e Figura 33). La rappresentazione sulla mappa conferma che si tratta di una scafa e non di una struttura portuale stabile, mercantile. Una scafa, un traghetto ante litteram come quello cinquecentesco del Porto del Falcone di Cossolnovo sul Ticino (Figura 72 e Figura 73).
Poi nulla più fino ai progetti di ponti di barche (1846 e 1854) formulati dall’ingegnere Costantino GALIMBERTI, ma mai realizzati. Finché, finalmente, intorno al 1870, venne costruito il primo ponte stabile in prossimità di Vigevano.
La Lomellina, si sa, è soprattutto terra di pianura e terra paludosa, quindi terra di torba (BARELLI, 1835; CARTA, SACCHI, DE CASTRO e STRAMBIO, 1857) e di argilla. E dove l’argilla era abbondante era cavata ed utilizzata, dal Settecento, nelle locali fornaci per produrre tegole e mattoni (Figura 34).
L’ambiente umido era anche ideale per la canapicoltura, un tempo diffusa. Con la canapa si preparavano corde, tessuti e vele (Figura 34), dando vita a un’altra piccola filiera artigianale di cordai e tessitori. Infine, l’acqua deviata dai fiumi non serviva solo all’irrigazione dei campi e delle risaie, ma era anche motore dei numerosissimi mulini che macinavano grano, mais e castagne. Un ricordo per tutti va al Mulino di Mora Bassa (Figura 69) presso Vigevano. In particolare il mulino era azionato dalla Roggia Mora, il canale di derivazione dal fiume Sesia che in una sessantina di chilometri arriva fino a Vigevano. È uno dei grandi interventi strutturali messi in campo dagli Sforza, a cominciare dalla fine del Quattrocento, per incentivare l’agricoltura e l’attività manifatturiera. In particolare, alle porte di Vigevano, il canale si divideva in vari rami e si interconnetteva con il Naviglio Sforzesco per raggiungere il complesso della Sforzesca (Figura 21) voluta da Ludovico il Moro (Figura 5).
Ma le castagne (Figura 35) dovevano essere importate, dovevano arrivare dall’Oltrepò Pavese, dal Monferrato o della Liguria. Si trovavano nei mercati grandi e piccoli. Anche qui, come altrove, erano considerate il pane dei poveri, oppure integravano i raccolti insufficienti. Erano consumate arrostite (caldarroste) o bollite, oppure seccate e cotte nel latte.
Con la farina erano fatte polentine da accompagnare al latte ed ai formaggi, ma era preparato anche il classico castagnaccio. Qualcuno le lessava insieme al riso, preparando un piatto caldo ed energetico.
La pellagra
Nel periodo 1830-1844 in Lombardia, una delle malattie più diffuse nella popolazione rurale, oltre la malaria, era la pellagra (il mal della rosa). In generale, la pellagra era causata da una alimentazione sovrabbondante di mais (polenta) e dalla conseguente carenza di niacina (vitamina PP).
Il mais è sempre stato una risorsa nell’Italia settentrionale. Era coltivato e, dopo la raccolta, era anche oggetto della cosiddetta spigolatura (Figura 36). Nei campi restavano sempre un po’ di pannocchie dimenticate a terra. Ed era in quel momento che poteva cominciare la spigolatura: una sorta di rito silenzioso, fatto di piccoli passi, lenti ed occhi attenti. Un rito che apparteneva alle donne, ai ragazzi e agli anziani. Dopo la raccolta del mais, all’approssimarsi dell’inverno, cominciava la ricerca delle pannocchie dimenticate, delle pannocchie cadute e perse, delle pannocchie che essiccate al sole e sgranate sarebbero diventate comunque farina, cibo per gli animali, o piccole scorte per l’inverno.
Nell’Italia centro-settentrionale la pellagra si è diffusa a partire dalla seconda metà del Settecento (FUSCO, 2009). Proprio dal 1830, è rammentata la maggiore diffusione della malattia. …Dal primo censimento dei pellagrosi del Regno Lombardo-Veneto (anno 1830) emergono 20.282 casi in Lombardia, con la ripartizione provinciale indicata come segue: Milano 3.075, Mantova 1.228, Como 1.572, Lodi 377, Brescia 6.939, Pavia 573, Sondrio 2, Bergamo 6.071, Cremona 445… (Enciclopedia Treccani). La popolazione del Regno Lombardo-Veneto era in quell’anni di circa 4.300.000 persone (Figura 55, Fonte it.wikipedia.org).
Nei casi più gravi, la malattia degenerava in demenza. E fu talmente elevato il …numero di pazzi pellagrosi che intorno al 1830 si rese necessario adattare il convento di Astino, ceduto sul finire del ‘700 dal comune di Bergamo all’Ospedale Maggiore, a manicomio… (FUSCO, 2009). Non a caso in molte descrizioni geopolitiche della regione padana, riferite alla prima metà dell’Ottocento, sono annotati gli ospedali, i ricoveri, ma anche i casi di cretinismo, la maggioranza dei quali era riferibile sicuramente alla degenerazione della pellagra (BERTANI, 1846).
Tuttavia, già dal 1830 fu dimostrato che nelle zone dedite alla coltivazione del riso la malattia era meno presente.
Il riso costituiva quindi una barriera naturale alla malattia per la sua ricchezza di nutrienti protettivi.
Le risorse delle zone umide
Sono quelle risorse, diciamo, integrative del lavoro agricolo, ma comunque fondamentali a migliorare l’alimentazione ed il tenore di una vita dura.
Il Beccaccino. Ė un piccolo migratore che nel transito per la nidificazione verso il Nord Europa si ferma nelle aree umide, nelle marcite e nelle risaie temporaneamente allagate. Arriva in autunno prima delle nebbie e si ferma nei campi appena mietuti, fra stoppie umide e fangose.
Veniva preparato in umido, con vino rosso, pancetta, alloro e le sue rigaglie tritate, quindi veniva accompagnato a polenta caldissima. In alternativa era utilizzato per insaporire risotti (Figura 37).
A proposito di migratori, quando si attraversa la Lomellina non è raro vedere razzolare nelle risaie o sollevarsi in volo dalle stesse una Cicogna nera, un Airone cinerino, una Garzetta o un Ibis sacro (Figura 38).
Poi, fra ottobre e novembre, il passaggio degli stormi compatti di Colombacci diretti verso i boschi di querce e di pioppi (Figura 39). E questo avveniva alla fine della stagione in risaia ed era preludio della caccia autunnale.
La carne del Colombaccio è molto ricercata (Figura 40). Scura, aromatica e compatta, esprime al meglio i profumi del bosco. Una perla della cucina lomellina è il risotto al colombaccio, cotto col brodo ottenuto dalle carcasse, e mantecato, servito con le cosce brasate. Oppure, sul risotto, si adagiano i petti a fettine sottili. Alternativa è il colombaccio in salmì, con vino rosso, alloro e ginepro, servito con la consueta polenta caldissima.
Nell’ambiente compreso fra le aree umide ed i boschetti perimetrali è presente dal Medioevo il Fagiano. Soprattutto nel Rinascimento fu oggetto di prestigiose campagne venatorie e nobili battute di caccia (Figura 75). Ma l’apoteosi, già allora, era in cucina (Figura 41). La preparazione classica era arrosto, avvolgendolo nel lardo per mantenerlo tenero, o brasato con cipolla e spezie immerso nel vino dell’Oltrepò, o marinato o stufato. E comunque, classicamente, accompagnato dalla polenta. Più tradizionale ed in connubio col riso, era il fagiano alla lomellina. Rosolato con cipolla e vino bianco, poi fatto sobbollire a lungo finché diveniva una salsa per insaporire il riso.
Un’altra preda di questo ambiente era la Lepre (Figura 42). Anch’essa simbolo dell’autunno, del profumo della vendemmia, dei primi freddi, del primo camino acceso sul quale la cottura lenta si prolungava per ore… La lepre in salmì, una classica preparazione molto accurata: breve frollatura, marinatura nel vino rosso con verdure, alloro, ginepro e spezie ed infine cottura molto paziente, prima di stenderla sulla polenta caldissima. Ricordo di un dono di Enzo; preparata da Patrizia.
Un’alternativa più semplice era la lepre alla cacciatora, aromatizzata con olive ed acciughe.
E poi, la sera, andar per rane è stato per lungo tempo una parte importante della vita quotidiana. Era un’attività dell’imbrunire, praticata con lanterne e retini, per integrare la dieta povera di proteine delle famiglie contadine. Dal Quattrocento almeno le cosce fritte, le rane dorate, infarinate o passate in pastella immergendole nell’olio bollente, erano servite croccanti (Figura 43).
Un’icona della cucina lombarda.
E per concludere, i funghi.
A fine estate-inizio autunno ecco spuntare mazze e tamburi (Figura 44 e Figura 45) nei prati, nei pioppeti (Figura 39), ai margini dei boschi e della pianura. La preparazione più diffusa era tagliata impanata e fritta (Figura 46). Ma anche ai ferri con olio, sale e prezzemolo, oppure trifolata. Molto più rara era la preparazione delle cappelle in padella con burro e panna.
Altrettanto tipici e frequenti sono i funghi chiodini che si trovano a famigliole, soprattutto nei pioppeti. Ma bisogna ricordare che sono tossici e che la loro tossicità si elimina solo con una lunga bollitura. Quindi, come dicevano le nonne, lessare e scolare prima di cucinare e mettere sott’olio o farli trifolati (Figura 47).
Le risorse dalle acque di gore, canali, torrenti, fiumi
Gore, rogge, canali, fiumi, fonti importanti, inesauribili (fino a al secolo scorso, di pesca.
In questa realtà la cultura materiale ricorda numerose ricette di cucina, frutto della disponibilità di pesci fondamentali alla sussistenza.
La carpa (Figura 48 e Figura 49) è presente dal medioevo in Lomellina, dove i frati la consideravano una preziosa risorsa di magro… . È sostanzialmente un pesce di fondo e quindi la sua carne assume talvolta un gusto un po’ particolare, fangoso. Per questo era soprattutto preparata in carpione, cioè fritta e poi messa sotto aceto, con cipolla, carota, vino bianco, erbe ed aromi vari. Talvolta era anche consumata direttamente fritta o affumicata. Sempre in carpione era preparata l’Alborella (Figura 50), pesciolino molto frequente in piccoli branchi nei canali della Lomellina. In alternativa, appena pescata, l’immediata infarinatura e frittura nell’olio caldo. Divenute croccanti, ottime mangiate appena tolte dalla padella con un po’ di sale. Ed ancora in carpione, ma anche fritta o in umido, è stata comune per secoli l’Anguilla (Figura 51). Era molto diffusa e pescata nelle gore e nei canali di derivazione per l’irrigazione. Ne sono ancora molto vivi la memoria ed il consumo.
Un altro abitante delle acque e delle risaie di Lomellina era il Luccio. Il predatore d’acqua dolce per eccellenza. Un pesce che, come la Carpa, può raggiungere dimensioni eccezionali. E come predatore, il Luccio ha il ruolo di regolatore delle popolazioni ittiche minori. Ma il Luccio era anche una presenza tipica in cucina (Figura 52). Nella cultura materiale la sua carne bianca, soda e delicata, veniva lessata e preparata con una salsa di prezzemolo, capperi, acciughe, aglio e olio d’oliva, talvolta ammorbidita da una nota acidula di aceto o da un peperone sottaceto tritato fine. Il tutto era servito sulla consueta polenta appena spaiolata.
Infine, ormai solo da ricordare, è la Savetta (Figura 53) un piccolo pesce ormai estinto. Era pescato e cucinato fritto o in carpione, ma praticamente solo nelle osterie residenti sugli argini dei fiumi, insieme ad un altro pesciolino povero, il Triotto (Figura 54).
Sale, provincia di Alessandria, Italia
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