Archeologia mineraria in Liguria Orientale

Copertina

Carta dei giacimenti di manganese della Liguria (Secondo la Carta Geologica scala 1:100.000. Legenda: quadrettato = Ofioliti; Nero = diaspri mineralizzati; 1- diaspri manganesiferi; Concessione “Gambatesa” e “Tre Monti” e permessi limitrofi: 2- affioramenti di Nossiglia-Pontori; 3- miniera di Gambatesa; 4- miniera di Monte Bossea; 5- miniera di Molinello; 6- miniera di Cassagna-Monte Bianco; 7- affioramenti di Chiappozzo; 8- miniera di Statale; 9- miniera di Monte Porcile; 10- miniera di Monte Zenone; 11- miniera di Monte Alpe; 12- affioramenti di Monte Pu; 13- affioramenti di Monte Balarucca-Monte Verruga; 14- affioramenti di Monte Cucco; Zona di Framura: 15- miniera di Framura; Zona di Borghetto Vara: 16- affioramenti di Monte Nero (da BURCKHARDT C.E. e FALINI F., 1956).

L’archeologia mineraria nella Liguria Orientale

Questa storia inizia cinquemila anni fa, ma le cronache di queste ultime settimane la rendono di nuovo molto attuale.
È l’occasione per ricordare quanto sia stata profonda la conoscenza di questo territorio e, soprattutto, delle sue risorse più segrete. Risorse che hanno dovuto essere riconosciute, scovate e scavate nella e dalla roccia. Che sono state lavoro e fatica. Ma anche risorse che hanno sviluppato ingegno e manualità. Che sono diventate soluzioni di sopravvivenza. 
Oggi restano tracce ed indizi di questa storia. Resta un museo allestito e visitabile, ma rimane anche un grande museo open air esteso a tutto il territorio ed anche oltre (Figura 1, da DEL SOLDATO, 1997). Un museo che deve essere scoperto con fatica e respirato, per essere riconosciuto e conosciuto. Un museo, quest’ultimo, di conoscenze e tradizioni profonde che per questo va rispettato.
Le ferite? Ci sono anche quelle, ma non fanno parte di questa storia. Ne rappresentano solo gli ultimi pochi attimi.

Le ofioliti

Quante volte abbiamo sentito parlare di oceano nel Levante ligure? Beh, non erano fantasie per farci appassionare, ma la ricostruzione degli eventi che hanno portato la nostra regione ad avere la composizione e l’aspetto attuali.
Se torniamo indietro di circa 200 milioni di anni, infatti, nell’era giurassica, assistiamo alla lacerazione della crosta continentale, che all’epoca era un’unica terra emersa (Pangea), divisa in due supercontinenti, Laurasia e Gondwana. Tra i due trovava quindi ulteriore spazio la Pantalassa, il grande oceano che ricopriva il pianeta.
Un ramo di questo oceano, noto ai geologi come bacino ligure piemontese, è il luogo in cui tutto (il nostro tutto) accade. Un piccolo bacino oceanico in continua evoluzione con un fondale costituito da rocce del mantello, le peridotiti, trasformate dall’acqua di mare in serpentiniti (un processo chiamato metasomatismo). Sono le protagoniste indiscusse del territorio che dal comune di Ne arriva sino a quelli di Framura e Levanto (Figura 2 e Figura 3).
La lacerazione della crosta continentale prosegue consentendo la risalita di magmi lungo le fratture della dorsale oceanica. Quando questi si raffreddano nelle fratture, danno origine ai gabbri (Figura 4 e Figura 5). Se invece effondono sul fondale, danno origine ai basalti (Figura 6 e Figura 7).
Serpentiniti, gabbri e basalti, sono noti ai più come ofioliti o rocce verdi.

Uno dei fenomeni più interessanti, in particolar modo in questo contesto, è il comportamento della fredda acqua oceanica. Essa, attraverso le medesime fratture, penetra nella crosta, si riscalda, cambia composizione arricchendosi di numerosi elementi. Calda e pressurizzata, fuoriesce nuovamente sul fondale, raffreddandosi e precipitando quegli stessi elementi. Sono il ferro ed il rame, la silice, il manganese e così via man mano che ci allontaniamo dalla dorsale oceanica. È in questa fase che insieme ai basalti precipitano il ferro ed il rame, ed insieme ai fanghi silicei (i diaspri, Figura 8) il manganese (Figura 9).
Terminata l’apertura di questo bacino, la placca africana cambia direzione ed inizia a derivare verso quella euroasiatica. Questo determina, in milioni di anni, la diminuzione della profondità, la chiusura e l’interramento del nostro piccolo oceano con la deposizione dei calcari a Calpionelle (Figura 10), delle argille a Palombini (Figura 10, in corrispondenza del logo, e Figura 11) e delle sequenze sabbiose sovrastanti.
In poche righe, 150 milioni di anni di storia geologica.

Le mineralizzazioni del Levante ligure

Abbiamo visto il legame tra rocce e metalli che si viene ad instaurare nell’ambito della circolazione idrotermale di dorsale oceanica. È un processo che vede nella temperatura un fattore fisico determinante.In linea generale potremmo dire che ogni elemento ha una temperatura al di sotto della quale precipita dalla soluzione. Ferro, Rame, Nichel sono presenti nelle soluzioni idrotermali a temperature molto elevate e pertanto precipitano in corrispondenza della dorsale e del fondale oceanico. È questo il motivo per cui troviamo tali elementi all’interno delle ofioliti. Ed il fatto che il contesto deposizionale sia un ambiente acido ed anossico (povero di ossigeno) fa sì che tali elementi si depositino il più delle volte sotto forma di solfuri.
In questo quadro generale emergono delle differenze peculiari, determinate dalla posizione in cui le soluzioni fuoriescono dal fondale, dalla loro composizione specifica e dalla loro temperatura. Possiamo dunque trovare i solfuri concentrati all’interno delle innumerevoli microfratture della roccia (gli stockworkFigura 12), o disseminati all’interno della roccia, o concentrati in lenti o masse (Figura 13). Queste ultime, a loro volta, possono essere primarie o possono essere andate incontro ad ulteriori concentrazioni che, nel dinamico contesto geotettonico di un oceano in apertura, sono molto frequenti. Anche la composizione può variare sensibilmente con la presenza, all’interno dei solfuri, di elementi minori, quali i minerali del gruppo del Platino (PGE cioè Platinum Group Elements), ma anche oro, argento, zinco e così via, seppure, nel nostro caso, difficilmente in concentrazioni significative.
Queste sono le caratteristiche chimico-fisiche e strutturali che definiscono la geometria e la natura dei giacimenti a ferro e rame (ferro-cupriferi). Essi sono legati alle ofioliti e, per il contesto di dorsale in cui si sono formati, ricadono per lo più nella categoria dei cosiddetti VMS (Volcanogenic Massive Sulphides).

I giacimenti di manganese

Leggermente diverso è il discorso per quanto concerne i giacimenti di manganese. Questo è un elemento che resta in soluzione a temperature più basse, dando il tempo alle soluzioni idrotermali di allontanarsi dalla dorsale (hydrothermal vent) per poi precipitare in ambiente più distale. La precipitazione del manganese, nel nostro caso, avviene contestualmente a quella della silice colloidale, ad una residua quantità di ferro ed alla deposizione dei radiolari (microorganismi oceanici che posseggono un esoscheletro siliceo, Figura 14). È per questo che troviamo i silicati di manganese inglobati nei fanghi silicei noti come Diaspri.
Anche in questo caso le mineralizzazioni possono variare in composizione e geometria. La ciclicità deposizionale di livelli ora più ricchi in silice e ferro, ora in manganese, può portare alla formazione delle note mineralizzazioni listate (Figura 9). Interessante è poi il fatto che tali livelli presentino un comportamento meccanico molto diverso, dovuto principalmente dalla differenza di densità. Questo fa sì che, in condizioni ancora incoerenti (non consolidate), si assista a fenomeni gravitativi per cui il minerale si concentra in livelli più potenti (banchi) o addirittura scivoli verso depressioni o bassi strutturali (slumps) dando origine a grandi masse mineralizzate (lenti – Figura 15).
Con la cessazione delle attività idrotermali legate all’apertura del bacino oceanico, la precipitazione del minerale cessa ma non la sua storia. Gli sconvolgimenti tettonici cui tutta la sequenza è andata incontro nel corso dell’orogenesi alpina e di quella, più recente, appenninica, hanno portato ad una rielaborazione di queste mineralizzazioni con ulteriori modifiche delle geometrie e delle composizioni, spesso accompagnate dalla riconcentrazione in vene o fratture di elementi minori e rari quali il vanadio e l’arsenico. Tutto ciò ha portato alla genesi di minerali estremamente rari se non unici al mondo. Un processo che ha fatto della Liguria un tesoro scientifico inestimabile e conosciuto in tutto il mondo.

immagine nel testo

Figura 16- Piano della concessione di pirite di ferro e rame “M. BOSSEA”, senza data (Archivio Privato) 

Archeologia mineraria: il diaspro e la selce

Non è dato sapere quando, in Liguria, l’uomo ha iniziato ad utilizzare oggetti litici per soddisfare alcune sue necessità. Sappiamo, invece, quando i Liguri hanno iniziato ad estrarre materiali scelti per fabbricare quegli oggetti.
Ci troviamo in territorio di Maissana, precisamente in Valle Lagorara, fra il 2920 ed il 1890 BC. I Liguri già avevano imparato a riconoscere il diaspro, quindi a distinguerlo dalle altre rocce che formavano i versanti. Ma soprattutto significava riconoscere quel particolare tipo (facies) di diaspro suscettibile di essere lavorato con una ben precisa tecnica (la scheggiatura) per ottenere alcuni strumenti fondamentali per le loro attività.

All’interno dell’imponente sequenza dei diaspri, infatti, non tutti gli strati hanno le medesime composizione e caratteristiche. Solo alcuni sono adatti ad essere lavorati in maniera fine e perfetta mediante percussori litici, di corno e punte di rame. In questo modo si scheggiano secondo superfici finemente concave (frattura concoide).
Una sequenza molto potente di questi strati si trova in Valle Lagorara dove, fra la fine del Neolitico e l’inizio dell’Età dei Metalli, sono state aperte le prime cave, cioè cantieri organizzati e lungamente sfruttati.
E la specializzazione dell’industria risiedeva sicuramente nello scegliere il nucleo da isolare dall’affioramento, ma anche dall’utilizzo di ben precisi percussori e da una strategia operativa. I percussori erano di eclogite, una roccia molto dura che doveva essere importata dal ponente ligure (Figura 17). La strategia consisteva nel produrre sul posto solo semilavorati da scambiare o rifinire secondo necessità. Questo perché la rifinitura era l’operazione che più frequentemente provocava la rottura del manufatto (punta di freccia o raschiatoio che fosse).
L’alternativa al diaspro era la selce. Ma questa era più difficilmente reperibile. Si trova, infatti, in forma di noduli o liste fortemente connesse agli strati di Calcari a Calpionelle prossimi al contatto con i diaspri (Figura 18, DEL SOLDATO, 1990). Sono facilmente riconoscibili, ma la loro estrazione è più complessa. Gli affioramenti più interessanti sono quelli dei monti Chiappozzo, Copello, Porcile e del monte Bianco. Tuttavia è possibile che venissero cercate anche negli accumuli detritici presenti ai piedi dei versanti calcarei o lungo gli alvei. Qui subivano forti stress in fase di trasporto che se da un lato selezionavano i frammenti più duri e resistenti, dall’altro potevano ingenerare microfratture che si evidenziavano solo in fase di lavorazione (scheggiatura). I diaspri e la selce erano estratti anche in diversi punti del territorio, come ad esempio nell’area di Deiva Marina (Figura 19).

Archeologia mineraria: il rame

Ci spostiamo ora nella seconda metà dell’Ottocento. A Libiola i permissionari Vannoni e Bonelli scoprono …nella vicinanza dell’attuale galleria Giulio, dei mucchi di gettito lasciativi da minatori antichi, con qualche istrumento di ferro… (BROWN, 1876). Poco dopo, i nuovi concessionari scopriranno in prossimità del Pozzo Brown …gli avanzi di lavori importanti, di un’epoca anteriore all’uso del ferro, e molti utensili di legno, come badili, martelli, cunei, etc.… (BROWN, 1876).
Il Brown conservò gli strumenti presso gli uffici della miniera. Si trattava di …un mazzuolo litico, una paletta di legno, il manico di un piccone di legno ed alcune specie di piccole clave sempre di legno. Purtroppo questo materiale è andato del tutto disperso e a nostra disposizione […] resta soltanto il manico di piccone che è conservato al Museo Archeologico di Pegli. Resta pure il disegno fatto da Issel del mazzuolo e della paletta, mentre manca ogni altra indicazione su quelle specie di piccole clave di legno… (ISETTI G., 1964). E proprio il manico di piccone ci attesta l’attività della miniera di Libiola fra il 3490 ed il 3120 BC (da datazione al radiocarbonio). Attività che è coeva con quella di Monte Loreto dove, una recente datazione al C14 eseguita su un frustolo di carbone ritrovato su un piano di calpestio alla base di un pozzo preistorico, la attesta fra il 3645 ed il 3355 BC (MAGGI e CAMPANA, 2008).
La paletta, i mazzuoli e le clave li possiamo solo immaginare dai disegni lasciatici da ISSEL (Figura 20). Come la loro forma e dimensioni, per poterli paragonare ad altri ritrovamenti italiani. Ad esempio i mazzuoli di Lagorara (Figura 17) e Monte Loreto (Figura 21) e le clave di quercia neolitiche di Abbadia San Salvatore (Figura 22). 
L’attività antica di Libiola e Monte Loreto è documentata archeologicamente, ma a queste si deve aggiungere anche la piccola miniera di Val di Spine caratterizzata da gallerie ad altezza di uomo in ginocchio.
Da allora la miniera di Libiola è stata in attività, con alterne vicende, fino al secolo scorso. Al contrario, molto più ridotte sono state quelle delle altre miniere aperte nei giacimenti di solfuri misti cupriferi della Liguria Orientale (e dello Spezzino).

Archeologia mineraria: il manganese

Non ci sono indicazioni molto antiche, invece, riguardo allo sfruttamento dei giacimenti di manganese della Val Graveglia e dello Spezzino (Pignone, Rocchetta Vara, Arcola, etc.).
Non si può escludere che anche il manganese, magari in forma polverulenta (pirolusite) fosse utilizzato occasionalmente in antichità come pigmento o per attizzare il fuoco (HEYES et Alii, s.d.), ma le emergenze storiche ci riportano ad epoche molto recenti, alla Rivoluzione Industriale.
La presenza del manganese in Val Graveglia era comunque nota, soprattutto per la sua vicinanza a piccoli giacimenti di solfuri misti. Questo è documentato a Gambatesa con una corta e angusta galleria presente lungo la strada di accesso. Ma anche a monte Bossea (Figura 16) dove le galleria per la ricerca del rame sono state cartografate in prossimità di quelle per la coltivazione del manganese.
Il manganese è stato una risorsa per la Val Graveglia. Come lo è stata l’ardesia a cominciare dall’Età del Ferro a Chiavari, poi dal medioevo lungo il crinale dietro Lavagna e più tardi per la Val Fontanabuona. Il manganese è stato una risorsa che ha profondamente cambiato la Valle, ma anche i suoli abitanti. E questa si è manifestata con la fatica e le dure condizioni di lavoro nelle gallerie (e non solo), che ben poco sono migliorate con passare del tempo. Una risorsa della quale si vedono ancora le tracce, oggi riconvertite in richiamo turistico e che ormai sono parte integrante del paesaggio. Molto di più delle ferite aperte dalle cave. Una risorsa che è stata tale anche per un paio di generazioni e non solo locali. Ricordiamo l’immigrazione di personale (e famiglie) da altre regioni minerarie come la Sardegna, la Toscana ed il Lombardo-Veneto. Una risorsa che ha sicuramente migliorato il tenore di vita, incrementando la rete viaria (nei primi anni Cinquanta del secolo scorso la strada provinciale era ancora limitata a Pian di Fieno) e le infrastrutture.
Oggi la Val Graveglia ed un’ampia area con emergenze di archeologia mineraria. È  un grande museo archeominerario open air (Figura 1), un museo minerario che si estende orizzontalmente su un ventaglio di materie prime (dai minerali ai litici). Ma soprattutto, si estende verticalmente dal IV millennio BC ai giorni nostri, se in questa realtà culturale e tradizionale inseriamo i poli riconvertiti turisticamente di Valle Lagorara, Gambatesa e Monte Loreto.

L’archeologia industriale: il Sink Float di Piandifieno

Originale ed importante  è, ancora, la presenza dell’impianto di arricchimento per Sink Float (risalente agli anni Sessanta), unico caso ancora esistente, almeno in Italia ed esempio di archeologia industriale. La sua realizzazione fu imposta dall’abbassamento del tenore medio del minerale estratto e dalla necessità di recuperare anche quella quota di minerale che in precedenza era accantonato o scartato perché non remunerativo.
Il processo sfruttava la differenza di peso specifico fra il toutvenat a tenore maggiore da quello più povero. L’agente responsabile della separazione era un liquido pesante (mezzo denso) che mediante una sua definita densità opportunamente stabilita, operava la separazione cercata.
Il materiale da arricchire, preventivamente macinato ad una grana media molto fine, e lavato (sfangato) era immesso nel mezzo denso. Qui, i granuli ricchi, più pesanti del mezzo denso, affondavano, mentre quelli poveri, meno densi del mezzo, gli galleggiavano in superficie e potevano essere facilmente asportati (schiumati).
Il minerale proveniente dai cantieri di estrazione dopo una breve sosta nei silos di smistamento veniva assoggettato ad una o due fasi di frantumazione fino a raggiungere la pezzatura voluta (Figura 23) ed era nuovamente stoccato in un silos.
In seguito subiva una lavatura ed una vagliatura per eliminare tutta la parte più fine che avrebbe inibito la flottazione (Figura 24). Tuttavia, questa non era scartata, ma assoggettata ad un arricchimento con metodo gravimetrico. La pezzatura idonea, uscita dal vaglio, passava nel circuito a mezzo denso rappresentato da un tamburo separatore dal quale uscivano da una parte il ricco e dall’altra il povero.
Il primo era avviato alla vendita mentre il secondo, prima di essere definitivamente tradotto a discarica, subiva un ulteriore processo di recupero.
L’impianto rimase in funzione per oltre venti anni fino a quando la società gerente (che nel frattempo era divenuta l’Italsider) chiuse l’attività cercando di far dichiarare esaurite le miniere.

Breve filmato degli anni Ottanta del secolo scorso nel quale viene dimostrata sperimentalmente la tecnica della scheggiatura. Si tratta della produzione di una punta di freccia da un abbozzo di diaspro

Opere Citate

BROWN, F. (1876). Nozioni storico-statistiche sulla miniera ramifera di Libiola situata nel territorio di Santa Vittoria Comune di Sestri Levante. Genova, Tip. Schenone.
BURCKHARDT, C., & FALINI, F. (1956). Analisi quantitative (in %) del minerale proveniente dalle coltivazioni di Cerchiara, Monte Sorbolo e Baccano (Provincia della Spezia). Symposium sobre Yacimientos de Manganeso. XX Congreso Geologico Intenational – Mexico. 5, p. 221-272. Gonzalez Reina J.
DEL SOLDATO, M. (1990). Analisi petrografica dell’industria litica scheggiata. In R. MAGGI, Archeologia dell’Appennino Ligure. Gli scavi del castellaro di Uscio: un insediamento di crinale occupato dal Neolotico alla conquista romana. Istituto Internazionale di Studi Liguri. Collezione di Monografie preistoriche ed archeologiche, Bordighera.
DEL SOLDATO, M. (1997). Risorse minerarie (lapidee e minerali) nella Liguria Orientale antica: cultura, storia e proposta di valorizzazione. In S. BALBI, M. MARIOTTI, & E. Patrone (A cura di) Insediamenti, viabilità ed utilizzazione delle risorse nella Liguria protostorica del Levante, I Quaderni della Massocca, 1977, p. 101-121. Framura, 20 settembre, La Massocca.

HEYES, J. P., ANASTASAKIS, K., DE JONG, W., VAN HOESEL, A., ROEBROEKS, W., & SORESSI, M. (senza data). Selection and Use of Manganese Dioxide by Neanderthals. 6:22159 – DOI: 10.1038/srep22159, Universiteit Leiden.
ISETTI, G. (1964). Il rame dei Tiguli e il problema di Chiavari. In Rivista di Studi Liguri, XXX, Bordighera.
ISSEL, A. (1892). Liguria geologica e preistorica. Genova, Tip. Donath-Pagani.
MAGGI R., CAMPANA, N (2008). Archeologia delle risorse ambientali in Liguria: estrazione e sussistenza fra IV E III millennio BCBull. Mus. Anthropol. préhist. Monaco, suppl. n° 1, 2008″.

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